Woman of Heart and Mind – Joni Mitchell: a life story
So che probabilmente quello che sto per dirvi vi renderà miei acerrimi nemici ma, per una questione di coerenza e dignità professionale (anche se non so bene a quale professione mi stia realmente riferendo) non posso in alcun modo tirarmi indietro e sono costretto a dirvi la sacrosanta verità: a me Joni Mitchell non piace.
Non so quando ha cominciato a non piacermi, probabilmente dall’inizio e le notizie che dall’inizio mi arrivavano su di lei, relative al suo considerare degni di attenzione solo gli appartenenti a una certa e ristretta cerchia di colleghi, non contribuivano a rendermela simpatica e di conseguenza a spingermi verso la possibilità di concederle qualche credito: per quanto ammiratore e per certi versi seguace della cultura indiana (o almeno così dice il mio Mala di rudraksha) il sistema delle caste proprio non glie la faccio a digerirlo, che venga dalle parti del Gange o da quelle di Joni Mitchell. Tutto questo, intendiamoci, senza avere mai avuta prova alcuna che i rumors in questione vantassero qualche fondamento, finanche minimo, nella realtà: in fondo è seguendo questa via che funziona l’informazione nel nostro paese, nevvero? e se non l’abbiamo mai cambiata significa che ci piace assai e ce la teniamo così, non solo quando ci disinforma da preziose testate giornalistiche ma anche quando, più miserevolmente, lo fa tramite il vostro avventuroso Manodipietra di quartiere, cari i miei 7 lettori.
In ogni caso, non ho mai capito gli elogi sperticati alla capacità di scrittura della Mitchell, dal momento che ho sempre considerato la sua musica un pochino noiosa, o le lodi iperboliche in onore ai suoi testi, sempre personali e francamente, almeno per me, non molto interessanti. Il suo modo di cantare, infine, l’ho sempre trovato stucchevole e non credo sia corretta nemmeno l’affermazione che la vuole prima donna a saper comporre (o comunque a proporsi) a livello degli uomini: Carole King dove la mettiamo? una sua coetanea che prima dei vent’anni, quando Joni ancora non sapeva scegliere verso quale strada crescere, aveva già scritto successi memorabili e che ha continuato per altri quarant’anni senza mai, e dico mai, dare alla luce una canzone che non fosse esageratamente stupenda.
Un’altra cosa che non ho mai capito completamente sono le vere e proprie liriche che vengono composte da questo e quello (ma più quello che questo) in onore della bellezza fisica della nostra Joni Mitchell e dei suoi derivati. E certo che è una bella donna, siam tutti d’accordo, ma se per glorificare lei si sprecano i superlativi assoluti per trovare aggettivi da potere appiccicare a Emmylou Harris o Carly Simon o Stevie Nicks cosa dobbiamo inventarci? sedute spiritiche per chiedere consiglio ai vari Alighieri, Petrarca e Cavalcanti? un veloce ripasso dell’opera omnia di Gabriele D’Annunzio?
Sono sempre stato convinto che, agli inizi della carriera, la Mitchell abbia saputo stringere rapporti con le persone giuste che le hanno sempre garantito una ottima stampa e soprattutto la possibilità di continuare a incidere i dischi che voleva pur senza che questi ottenessero adeguati riscontri commerciali. Però in fondo è possibile che il mio giudizio sia offuscato dal fatto che non mi piace Joni Mitchell. La prima Joni Mitchell.
Invece io adoro Joni Mitchell. La seconda Joni Mitchell.
La seconda Joni Mitchell aveva una stampa non molto favorevole, non ugoleggiava nenie impossibili su strampalati accordi aperti della sua chitarra solitaria ma cantava divinamente splendide canzoni accompagnata da musicisti di livello stellare, e non sto parlando a vanvera (almeno non questa volta) ma di gente come Wayne Shorter, Jaco Pastorius, Michael Brecker, Herbie Hancock, Pat Metheny e scusate se è poco, e scusate se Charlie Mingus, tra tanti artisti a cui poteva rivolgersi, per la sua ultima opera ha chiesto la collaborazione proprio della nostra (ma anche un po’ vostra) Joni. Il jazz ha letteralmente trasformato la Mitchell da cantautrice intimista di matrice dylaniana in una artista assoluta, di quelle che non ce n’è mica tante in giro. La ragione, chiaramente, non è il jazz in sé, che se avesse questo grande potere ne avremmo già usufruito tutti e non ci sarebbe alcun Manodipietra in giro, la ragione, credo, è da ricercarsi nel confronto con artisti dal talento immenso che l’ha costretta a migliorarsi, a scrivere in modo più intelligente, a cantare con una tecnica assai più raffinata, in parole povere a liberare definitivamente il proprio talento. E quasto l’ha fatta perfino diventatare bella come Emmylou Harris, Carly Simon e Stevie Nicks, o comunque parecchio più simpatica che in precedenza. Insomma, ragazzi, quando la cantautrice introspettiva circondata da colleghi lumaconi e sbavanti ha lasciato il posto alla jazzista è avvenuto un miracolo, una trasformazione che ci ha donato un’artista di classe cristallina che però non è mai piaciuta troppo alla critica, forse perchè piaceva a me.
Woman of Heart and Mind, è un documentario di Susan Lacy, molto scorrevole nonostante le due ore di lunghezza, che vuole raccontare, in modo leggero e discreto, la vita della nostra eroina, dall’infanzia alla poliomielite, dalla figlia data in adozione al ritrovamento della stessa. All’interno di questo film trovate tutto quello di cui abbiamo parlato fino a ora: i racconti di coloro che la incontravano agli inizi e rimanevano tramortiti dalla sua inusitata beltà o dalla sua incommensurabile bravura o da entrambe, trovate la solita storia che la vuole sposa di Chuck Mitchell solo perchè questi le aveva garantito, mentendole spudoratamente (da fellone qual certo egli era), che avrebbe adottato la figliuolina testè venuta al mondo, storia alla quale io credo poco perchè una volta svelato l’inganno nessuno l’ha costretta a rimanere sposata con Chuck che, invece, significava ingaggi sicuri, dal momento che lui era un musicista discretamente noto e soprattutto facile cittadinanza statunitense, la via verso un futuro che altrimenti le sarebbe stato negato o più difficile da affrontare.
Il documentario sfiora, con delicatezza, anche gli uomini che le sono stati accanto, glissando sempre con stile sulle reali cause delle rotture, non che la cosa ci interessi particolarmente, in realtà, dal momento che gli appassionati dovrebbero essere interessati all’artista, piuttosto che alla persona che ne “detiene i diritti”.
Woman of Heart and Mind è un ottimo lasciapassare per introdursi nel mondo della Mitchell e vedere un po’ com’è, se è accogliente, disturbante o semplicemente banale. E’ anche un buon punto di partenza per iniziare a scoprire la sua musica e una eccellente miniera di immagini piuttosto rare: per gli appassionati dell’ukulele sarà piuttosto interessante, per esempio, scoprire che ai tempi del duo con Chuck, Joni spesso si esibiva con questo strumento e che in una foto è ritratta con un Martin Tenore 8 corde decisamente interessante.
Bene, alla fine di questo sproloquio avete capito che sono contemporaneamente un detrattore e un estimatore di Joni Mitchell ma ancora non sapete se questo documentario mi è piaciuto o no. Cosa volete che vi dica? è fatto piuttosto bene e, anche se non affronta tutti gli stadi della vita della cantante (non vi è alcun accenno a Leonard Cohen,per esempio, o all’amicizia con Neil Young), risulta prezioso per una certa raffinatezza estetica generale, e per le rare immagini di cui si è detto. Un film che anche i non appassionati di musica possono vedere trovando spunti di interesse e di riflessione (non so bene cosa voglia dire questa frase, ma suona molto professionale, vero?), un film garbato, una piccola e devota celebrazione dell’artista che, ormai non più giovanissima, avrà apprezzato sicuramente.
E anche noi, dopotutto.