Viale dei Giardini e il Vecchio West: The Jam, That’s Entertainment (1981)
Nel 1981 ci sono già, o ci sono già stati, i Jam, i Clash, i Ramones e i Sex Pistols. Suzanne Vega scrive Tom’s Diner a New York. Sempre a New York, Simon & Garfunkel registrano un concerto al Central Park. Nel Regno Unito, i Duran Duran pubblicano il loro primo album, i Japan l’ultimo. Io però ho nove anni, e la mia conoscenza della musica si limita a Castellina Pasi e alla sigla di Furia cavallo del West. A merenda ingozzo plurimi panini rigonfi di salame e maionese, preparati da mia nonna – che vive al piano terra del nostro condominio, mentre io sto al secondo. Come quasi tutti i bambini, vorrei tanto saper costruire delle cose con le mie manine. Come pochi bambini, sono assolutamente incapace di tirare su qualsiasi cosa che non crolli pochi secondi dopo il completamento dell’opera.
Le prove oggettive di questa mia incapacità stanno tutte lì, fra le pagine dei Manuali delle giovani marmotte. Ho il primo e il terzo, ma non il secondo manuale – forse il secondo avrebbe cambiato radicalmente il mio destino di giovane marmotta, ma oggi è impossibile dirlo con certezza. Questo è ciò che succede ogni volta che apro uno dei miei due manuali: guardo i progetti più difficili; scuoto la testa; studio quelli un po’ più facili; mi guardo intorno rendendomi conto che mi mancano i materiali per la realizzazione; leggo le pagine sul codice morse e i segnali con le bandierine; mi stufo, anche perché non c’è nessuno a cui fare segnali con le bandierine; butto da un lato il manuale che ho in mano; costruisco una tenda mettendo insieme due sedie, una scopa e una vecchia coperta; la tenda crolla; vado a palleggiare contro il muro col Tango.
È da questa frustrazione da manuale delle giovani marmotte che nasce il mio bisogno di scrivere roba. Siccome se apro una radio poi non mi ricordo come si chiude, siccome tutti i lego che costruisco sono scatole informi che mia mamma ha la cortesia di chiamare case, siccome nei miei disegni le mucche somigliano ai gatti e i gatti somigliano ad alberi mozzati da un tuono, capisco ben presto che l’unica possibilità che ho di creare qualcosa – e io devo creare qualcosa, altrimenti la mia vita non avrà significato – è usare cose meno sostanziali come le parole, le idee, le storie. Molto prima di avere qualcosa da dire o da raccontare, insomma, viene il bisogno di dirlo e di raccontarlo: c’è da compiangere tutte le mie maestre e le mie professoresse di italiano – alcune delle quali, con ammirevole ma purtroppo vana applicazione, cercheranno poi di mettere un freno alla mia “creatività”.
C’è da compiangere anche i miei amichetti di allora, vittime delle mie prime creazioni. La prima cosa che cerco di fare, in realtà – una volta buttato da un lato il terzo manuale – è un libro. Reperisco, nella sala da pranzo che non usiamo mai, un’agenda vuota degli anni Settanta. Decido immediatamente che quell’agenda sarà il mio libro, e procedo a decorarla di conseguenza. Poi mi appresto a scriverlo, il libro, e mi rendo conto con una certa sorpresa che non so bene che cosa metterci dentro. Curioso, che l’esperienza di un bambino di nove anni non sia sufficiente a riempire duecento-duecentocinquanta cartelle manoscritte.
Messo il libro momentaneamente nel cassetto, mi viene un’idea geniale che coinvolge il mio amico del palazzo di fianco. Nel palazzo di fianco abitano due bambini poco più grandi di me, Andreino e Andreone. Andreone è cattivo, Andreino ride ma non sorride. Ogni tanto giochiamo in tre, ma va a finire spesso che Andreino si fa male e Andreone ride, o che Andreino e Andreone si coalizzano contro di me. Più spesso giochiamo in due, io e Andreino: giochiamo a tennis, tirando sassate involontarie alle calle della mia padrona di casa, che se ne ha a male e ci nasconde le palle; oppure giochiamo a Monopoli da una parte all’altra della rete divisoria, che abbiamo appositamente piegato all’insù per non dover nemmeno andare uno nel cortile dell’altro. La mia padrona ci tiene alle calle ma non alla rete divisoria.
La mia invenzione, che per un po’ riscuote un certo successo presso Andreino, Andreone e anche altri bambini del loro condominio, è il Monopoli western. Il Monopoli western è in tutto uguale e sovrapponibile al Monopoli normale, solo che i nomi sono diversi. Al posto delle stazioni ci sono i saloon, al posto delle lire ci sono i dollari, e via dicendo. Beccatevi questa, giovani marmotte.
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Se vi chiedete che cosa c’entri, tutto questo, con i Jam, Paul Weller e That’s Entertainment, la risposta è ovvia: niente. Se non per il fatto che quando poi ho cominciato ad ascoltare musica per benino, steso sul divano col libretto – Tom’s Diner di Suzanne Vega, Story of Isaac di Leonard Cohen, Uh Huh Oh Yeh di Paul Weller – le canzoni che mi piacevano erano quelle in cui si vedeva che c’era del lavoro, un sacco di parole, una storia ben costruita. E quando ho cominciato davvero a scriverne io, di canzoni, per provare che avevo creato qualcosa che avesse sostanza, anche se non era fatta di mattoni o metallo, dovevo metterci un sacco di parole, di rime non scontate, di allusioni, di rimealmezzo e di allitterazioni. E allora come potevo non rifare questa canzone di Paul Weller, che basta un verso e si sente già che ci ha lavorato di buona lena?
A pneumatic drill and ripped-up concrete
Altroché – ci ha messo pure il martello pneumatico. Eppure sono sicuro che non lo sa usare neanche lui, il martello pneumatico.