Un po’ di vino
Qualcuno di voi si ricorda di un brano intitolato Alla fine della strada, cantato da Orietta Berti? l’adattamento inglese, voluto da Tom Jones e ribattezzato Love me tonight, al di là dell’oceano fruttò al suo autore, Lorenzo Pilat, addirittura un Grammy Award e centinaia di reinterpretazioni anche in italiano. Lorenzo Pilat è proprio lui, il membro della famosa triade Pace-Panzeri-Pilat che negli anni ’60 veniva annunciata dopo il titolo di ogni santa canzone da tutti i santi presentatori di Sanremo, o almeno così ci pareva probabilmente a causa della musicalità che i tre cognomi insieme generavano. Molte delle opere di Lorenzo Pilat citavano il vino all’interno dei propri testi, permettendoci di intuire piuttosto chiaramente la sua origine friulana, e la composizione della quale vi voglio parlare oggi che incise come Pilade, il nome d’arte che usava quando faceva il cantante, è una di quelle anzi, forse è proprio la più importante: Un po’ di vino, registrata insieme ad Adriano Celentano (non accreditato sulla copertina del disco), riscosse un buon successo, almeno a casa mia se ricordo bene, senz’altro più di Vino Amaro, affidata qualche anno dopo all’ugola sanremese di Gianni Nazzaro, che nel testo si spostava in territori geologico/sessuali (“La donna cambia letto ma il fiume no”) di difficile interpretazione, per noi semplici emigrati dal caldo e agricolo sud per immigrare in un freddo nord coperto di asfalto.
Un po’ di vino era invece una canzone semplice, bella e divertente, ma non è di lei che vi voglio parlare, vi voglio parlare di quello che vedevo dal balcone quando la ascoltavo, in quel nord dove la campagna lottava con le ciminiere e il cemento, in quel nord dove il telefono duplex era il simbolo della modernità, insieme all’amianto, ai cavalcavia e alle gru che infestavano orribilmente l’orizzonte.
Il balcone della cucina mi mostrava una campagna verde, interrotta qua e là da qualche isolato casermone, che si stendeva a perdita d’occhio fino alla lontana Grande Fabbrica, mentre quello del salotto era una finestra aperta sul progresso che ci attendeva tutti inesorabilmente. L’occhio riusciva a spingersi fino ai primi alberi del Parco Ruffini e alla estremità del tetto del Palazzetto dello Sport da poco costruito e da lì, gettandosi giù dalla discesa che nascondeva il ponte sulla ferrovia, percorreva il Grande Corso per duecento metri fino al punto in cui si scontrava con una invincibile spianata di terra ed erba. Chi abitava al di là della spianata stava nel quartiere di Santa Rita, chi abitava al di qua, cioè noi, non si sapeva bene, che tutta la storia era un mezzo mistero. Il fatto è che la realizzazione di una nuova parrocchia a Città Giardino aveva rimesso in discussione il nostro senso di appartenenza e ci sentivamo, tanto per esagerare un po’, come la classica foglia preda del vento immortalata in tutte le poesie adolescenziali passate presenti e future: tradizionalmente eravamo di Santa Rita ma l’influenza della Grande Fabbrica soffiava alle nostre spalle come l’alito di fuoco di un gigantesco drago e presto ci ritrovammo a essere abitanti di Mirafiori Nord. Meglio ci andò di quelli che vivevano tra noi e il parco che passarono da Santa Rita a Pozzo Strada, poi a qualcos’altro e a qualcos’altro ancora finchè qualche politicante di buon cuore assegnò anche loro in dote a Mirafiori. In realtà culturalmente e perfino etnicamente siamo sempre stati tutti quanti di Santa Rita anche se ai Censori, quelli che secondo Edoardo Bennato disegnano le città, non è mai importato molto: loro quando tirano righe sulle cartine cittadine sono proprio uguali a quelli che le tirano sulle cartine del mondo così, solo per il gusto di sentire che cosa si prova a separare le famiglie, a far convivere culture incompatibili, a causare genocidi, guerre e altri tipi di avanspettacolo che tanto piacciono e provocano sollucchero nei nostri arditi media e in tutti coloro che si arricchiscono con le guerre, l’odio, le bombe e la gente mutilata con la quale amano poi farsi fotografare dopo aver loro regalato, con incomparabile generosità, le loro belle protesi riuscite male.
Guardando a sinistra si vedeva Città Giardino, lì dove la nostra nuova parrocchia era nata, difesa da una Cascina Giaione non ancora restaurata e ariete della metropoli scagliato contro le grandi coltivazioni di grano di Grugliasco, a destra invece c’era lo sterrato che teoricamente apparteneva al Grande Corso e che, inerme preda di immense e irregolari chiazze d’erba, praticamente era il campo sportivo testimone delle nostre epiche e selvagge partite a pallone.
Proprio davanti c’era la strada ove non si vedeva una macchina neanche a pagarla e dove, come pazzi, correvamo con le bici fino allo sfinimento, quello era il posto che facilmente ci scopriva a interpretare i personaggi del Corsaro Nero o quelli de I Ragazzi della via Pal, mentre tutto intorno suonavano i Beatles insieme ai loro emuli e noi si pensava di rimanere bambini per sempre, a ragione peraltro, perchè allora il tempo era immobile, c’era sempre il sole e le ruote della bicicletta non si sgonfiavano mai.
Un giorno poi mi svegliai, era tardi quindi capii che doveva essere domenica, dalla radio trasmettevano Un Po’ di Vino di Pilade e Celentano. Qualcosa mi turbava ma mi ricordai che eravamo nel ’68 e che ero ancora bambino, quindi tirai un respiro di sollievo, dalle imposte però non trapelavano i soliti immutabili raggi solari e ripresi a preoccuparmi, mi affacciai quindi e con orrore mi resi conto che lì a sinistra qualcuno aveva tirato su una serie di palazzoni che nascondevano la vecchia Cascina e che proprio davanti al portone di casa era cresciuta una grande e spaventosa gru che sarebbe servita a costruire una specie di alveare per umani che avrebbe celato per sempre, ai miei occhi, il parco, la discesa e tutto quella vista che tanto mi affascinava. Poi guardai a destra e realizzai che il Grande Corso si era impossessato del nostro campo di calcio e che non c’erano più le file di tifosi che ogni domenica, a piedi, si dirigevano verso lo stadio percorrendo il Piccolo Corso che incrociava quello grande proprio a un passo dal mio microscopico mondo infantile, quei tifosi che allegramente si prendevano in giro se portavano bandiere differenti; al loro posto rombavano carovane di macchine strombazzanti i cui occupanti si guardavano con odio se i drappi che sventolavano dai finestrini non erano uguali.
Spaventato corsi al balcone della cucina e con sgomento capii che la campagna era stata sostituita da un assurdo panorama che, come una catena di cemento, univa indissolubilmente casa mia alla Grande Fabbrica. Da dietro le montagne che per fortuna ancora riuscivo a vedere si sentivano le urla della rivolta francese, ma di questo non mi preoccupai più di tanto: alla radio trasmettevano le nuove canzoni dei Beatles e anche quelle di Pilade non erano male.
Per fortuna da noi era tutto tranquillo.