So You Want To Be A Rock ‘n’ Roll Star
Nei periodi di decadenza
il culto della cucina
diventa eccessivo.
(Aldo Buzzi)
Vi ricordate cosa avvenne quando scoppiò la Prima Guerra del Golfo? no? era una domanda retorica, bricconcelli, so bene che la memoria storica non è la principale virtù degli italiani e quando sarò arrivato al dunque sarete costretti ad ammettere che neppure l’intelligenza gareggia per le posizioni di vertice. Quando scoppiò la Prima Guerra del Golfo molti abitanti del Bel Paese si precipitarono in massa nei supermercati (e nei negozi) e li svuotarono completamente realizzando quello che i media di allora definirono gli “accaparramenti”! Nonostante gli sforzi delle industrie alimentari per un certo periodo fu davvero difficile reperire gli articoli alimentari, perfino quelli di prima necessità. Ricordo che un giorno, proprio all’inizio della psicosi, nel grande supermercato del mio quartiere trovai solo una bottiglia di acqua, schiacciata, che era finita dietro uno scaffale. La situazione ritornò normale quando, inevitabilmente, le scorte accumulate furono considerate sufficienti oppure quando lo spazio dove stoccarle terminò, scegliete un po’ voi. Se, in quei tempi bui, domandavi a qualcuno di quegli invasati perchè lo facesse, immancabilmente ti rispondeva che durante la guerra manca tutto ed è meglio avere delle riserve per i tempi più cupi, come ci avevano insegnato i nostri genitori. Potevi, volendo, obiettare che la guerra era in medio oriente mentre il riso arrivava dalle parti di Vercelli, ma ti avrebbero guardato con aria smarrita, non avendo ricevuto sufficienti informazioni e istruzioni da poterti rispondere come meritavi. Son passati quasi trent’anni, trent’anni di dialettica televisiva in grado di insegnare agli italiani che una risposta esiste sempre, e che non deve avere per forza un senso, alle tue osservazioni ora replicherebbero con: “E se la guerra fosse a Vercelli e il riso in Oriente?”, poi si allontanerebbero con un sorriso beffardo, convinti di averle suonate per bene al nemico verbale.
Quando la guerra del golfo finì, gli accaparratori si resero inaspettatamente conto conto di non poter conservare tonnellate di vivande in salotto e si assistette, nei luoghi di lavoro, nelle riunioni di famiglia, nei locali pubblici e financo nelle strade, a penosi spettacolini interpretati da omini che cercavano di disfarsi dell’immagazzinato nella vana speranza di non perderci troppi soldi. E quindi la guerra venne, sì, e portò disastri in medio oriente e nelle tasche di italiani che avevano dato in affitto la propria razionalità agli spin-doctor di media senza principi e vergogna.
Dopo trent’anni la situazione dei nostri cervelli è decisamente peggiorata ma, a magra consolazione, dobbiamo realizzare che si tratta di un fenomeno mondiale, non solo italiano, che forse non è neppure opera dei citati spin-doctor ma soltanto effetto della decadenza che, come ben sappiamo, sotterra l’etica per portare in trionfo l’estetica, e ti suggerisce che il cibo non è quella cosa buona che ti dà la forza per andare a giocare a calcetto il mercoledì ma è un’esperienza sensoriale che deve essere ben presentata e che di conseguenza ti spinge, quando vai in trattoria, a mandare indietro tutti i piatti e chiamare il cuoco, che però definisci Chef, per esternare critiche sagaci sul suo lavoro, come se tu sapessi far meglio. É la decadenza che ti spinge a mostrare agli amici un video dove stoni e suoni fuori tempo dicendo “questa è la mia cover di Mi ritorni in mente” invece che “ragazzi, sto imparando a suonare Mi ritorni in mente, pensate che sono sulla buona strada?”
La decadenza confonde la lingua, la storia, i bisogni, i desideri con lo scopo di raggiungere una sorta di Nirvana buono a non far capire cosa fare all’arrivo dei barbari, quelli che spazzeranno via tutto, noi compresi, per portare nuova linfa alla civiltà, fino alla prossima decadenza. E’ la nostra storia che non ci ha insegnato niente perchè, come abbiamo astutamente notato all’inizio, la memoria storica non è nel DNA degli italiani (e forse neppure nel DNA di tutti gli altri).
Vi ho già raccontato, altrove (Qui), di quando alla fine degli anni ’70 ebbi la mia grande occasione e vi rinunciai, vi ho anche accennato alle ragioni che mi spinsero a farlo ma quella più importante, però, l’ho taciuta, almeno fino a ora: semplicemente non sentivo il bisogno di esibirmi per il mondo, per gente che non fossero i miei amici più stretti. Mi piaceva comporre musica e, molto occasionalmente, suonarla, ma nulla più. Non so se ci ho davvero guadagnato, con questa scelta, sicuramente lo avete fatto voi, così non avete dovuto sorbirvi la mia poco interessante creatività.
Negli anni ’70 non c’erano, d’altra parte, molti posti dove esibirsi, a parte qualche concorso, festa di quartiere o addirittura, se eri fortunato, le feste di piazza che, però, erano quasi totalmente appannaggio di artisti muniti di contratto discografico. C’erano le feste di compleanno, quelle parrocchiali e la stanzetta non sempre fornita di specchio. Sapevamo benissimo quel che valevamo e sapevamo anche di essere fortunati, perchè la musica sarebbe stata sempre un fiorellino sbocciato nel nostro cuore e lì curato amorevolmente, puro, senza stupide ambizioni e sogni irrealizzabili. Sapevamo che non saremmo mai diventati rock’n’roll star e stavamo con i piedi ben saldi per terra, con le nostre rock band che non sarebbero mai uscite dalla cantina e tutto il resto. E anche quando, come nel mio caso, si materializzava davvero la possibilità di partire col botto, a volte rinunciavamo perchè, semplicemente, sapevamo di non essere all’altezza. Anche se eravamo bravini.
Il progresso ci ha regalato del software capace di farci incidere brani a 128 tracce in salotto mentre di là qualcuno sfaccenda in cucina, ci ha portato i social capaci di presentare il nostro lavoro al mondo intero o almeno a coloro con cui siamo in contatto e che, idealmente, lo rappresentano. Ci ha dato la possibilità di incidere dischi e di pubblicarli sul web o, con poca spesa, anche su supporto fisico, ha fatto capire a tutti i titolari di esercizi commerciali che un musicante può attrarre clienti a costo zero et voilà: lo show businness dei poveri è servito. Abbiamo gente che pubblica foto del live nella torrefazione dell’angolo, gente che annuncia la pubblicazione dell’ultimo disco, disponibile qua e là sul Web, e gente che fa, potenzialmente davanti a milioni di persone, quello che noi facevamo davanti allo specchio: sognare di essere Keith Richards e invece non esserne neppure una storta imitazione. Il tutto senza autocritica, senza autoironia, senza comprendere che tutto quanto è solo un circo messo su per vendere cose: strumenti, tecnologia, e prodotti vari. Senza capire che è l’estetica della decadenza a spingerci verso l’esibizione del nulla, che il progresso ci ha solo consentito di sognare a colori, non di realizzare veramente i nostri sogni.
Così a me vengono in mente gli accaparramenti della prima guerra del golfo e i Byrds che nel 1967 con So You Want To Be A Rock ‘n’ Roll Star, forse avevano capito già tutto.