Settimana 41. Del diametro di una circonferenza
In settimana sono andata al cinema.
Accanto a me erano sedute due signore di una certa età. Carine, simpatiche, con una di queste dividevo il bracciolo della poltrona. La mia vicina aveva odore di lavanda.
Per gran parte del primo tempo ho notato una certa agitazione. Un movimento inquieto e costante di una gamba.
All’intervallo, con fare da spia del KGB, ho cercato di capire il motivo di tanto rimescolamento. In realtà, non è che abbia dovuto “spiare” molto… La signora, da brava socialitè cesenate, mi ha interpellata, coinvolgendomi in una chiacchierata tra lei e la sua compagna di serata.
“Ah, ma a lei piace questo film, signorina?”
“Sì, per ora sì…”
“Io, se fosse per me, dormirei. E’ perché sono qui al cinema… se ero a casa con il telecomando in mano, cambiavo canale!”
“Ma no, signora, non è così male…”
Ridacchio. La sua gambetta non denunciava ansia quanto più era un tentativo estremo per non addormentarsi.
“Questo cinema mi piace. Ci vengo sempre con la mia amica. Non mi piace, invece, andare al cinema da sola. Come quella seduta davanti, lì…”
E mentre ascoltavo queste considerazioni pronunciate con dito imprudente puntato contro la ragazza nelle prime file, mi sono chiesta quanto capiamo e riusciamo ad elaborare del concetto di solitudine.
Per ciò che mi riguarda, nei confronti della solitudine altrui ho imparato ad avere molto rispetto. Una sorta di tacito riguardo per chi porta sulle spalle la sua persona tutta, senza condividere il peso con altri. E sono insolitamente tollerante anche verso tutte quelle forme di artifici – tv, cellulari, radio… – che possono aiutare qualcuno a sentirsi meno indifeso nei confronti del mondo. Una volta ho letto che a ciascuno è affidato il compito di vegliare sulla solitudine dell’altro. Penso sia una verità molto reale e concreta e tangibile.
La solitudine come idea generale credo ci spaventi più che nelle sue declinazioni fattive. Ho sempre ritenuto che star soli possa essere rinfrancante, ma questa è una visione del tutto personale. So di essere un po’ orso e di avere i miei tempi letargici in cui svernare in totale e completo isolamento.
Tuttavia, secondo me c’è un po’ di caos sull’identificazione dell’idea di solitudine e questo caos è prodotto da una concezione sbagliata di quel che si intende per il suo opposto. Il contrario di solo, checché ne dica il dizionario, non è accompagnato, in compagnia…
Seguitemi, si può essere molto soli anche in mezzo ad un gruppo di amici, ad una folla che riempie un luogo… Quando pensiamo alla solitudine o quando crediamo di essere soli, in realtà, non ci manca la moltitudine, non è questione di rapporto 1 a 100. Quando ci sentiamo soli ci manca la condivisione, la familiarità, la confidenza con qualcuno.
La definizione più bella di solitudine è quella che la delimita partendo da ciò che non è la solitudine stessa, dalla sua negazione. Richard Bach, in sproloqui di gabbiani e onde marine, scriveva: “l’opposto di solitudine non è stare insieme. È stare in intimità”.
Beh, credo che questi due punti opposti, estremi del diametro di una circonferenza, siano alla fine molto simili. La solitudine e la condivisione di intimità, allo stesso modo, ci fanno emozionare, soffrire, ridere, tremare come nient’altro al mondo.
Non vi pare, allora, che il diametro di noi stessi possa essere la massima distanza esistente fra questi due punti, sentirsi soli e desiderare un contatto? Sbaglio?