Samba Pa Ti
Intorno al 1972 ero convinto di essere l’unico hippie di Torino. Certo, in giro c’erano parecchi tizi con i capelli lunghi e che si vestivano strano, erano però tutti incasellabili in una qualche corrente modaiola alternativa, non erano veri hippie e non facevano paura a nessuno. Esistevano gli amanti del pellicciotto alla Lennon, quelli delle t-shirt tie-dye corte e i finti hell’s angels, ma tipi come me non ne avevo mai visti. Possedevo un paio di pantaloni di velluto viola a fiori che adoravo e che non saprei descrivervi neppure se avessi in me l’animo di tutti i poeti del ‘900, un panciotto di lana a rettangoli colorati, una camicia indiana rosa e un giubbino militare sul quale avevo cucito un sacco di frange. Al mattino salivo sul 56, pieno come un uovo, e improvvisamente si faceva il vuoto intorno a me, tra sguardi di paura e di scherno. C’era solo una ragazza con i capelli rosso carota che rimaneva tranquillamente al suo posto e che un giorno, dopo che un tizio ebbe espresso ad alta voce alcuni dubbi sulla mia pulizia personale, si avvicinò, mi annusò e poi lo rassicurò: “No, stai tranquillo, quello che puzza di più rimani sempre tu”. Molti di quei ragazzi divennero in seguito miei amici ma nessuno ebbe mai il coraggio di ritornare a quei giorni e a quei comportamenti razzistoidi. Di Pel di Carota, invece, persi le tracce e mi dispiace, ma è a causa sua se le ragazze dai capelli rossi mi ispirano istintiva simpatia e adoro Julianne Moore.
D’altra parte, si sa, la diversità da sempre incute timore per ragioni che non sono mai riuscito a comprendere pienamente ma che debbono esistere per forza, altrimenti non esisterebbe neppure il razzismo e adesso qui staremmo a parlare di cucina. Ci sono sempre giustificazioni plausibili per cammuffare la paura: faccio così perchè così fan tutti, loro vengono a rubarci il lavoro, vogliono imporci la loro cultura, sono ladri, sono sporchi, sono brutti, puzzano, parlano un’altra lingua, intaccano i valori della famiglia, professano una religione sbagliata. Sono solo sciocche, piccole, scuse di merda: la verità è che quel che non si riesce a comprendere, e qui entra in gioco l’ignoranza, fa spesso tremare le gambe e quando a questo si unisce una bella dose di stupidità ecco che vien fuori il solito vecchio razzismo. Potete chiamarlo anche in modi diversi, per mettervi a posto le coscienze, ma se siete razzisti è meglio che cominciate a essere sinceri con voi stessi, se non altro sarebbe un bel passo avanti in direzione della guarigione. Se pensate di avere più diritti di uno zingaro dell’est soltanto perchè voi siete nati in questa terra e lui no allora mi dispiace per voi: gli uomini hanno tutti gli stessi diritti e non posseggono la terra, si limitano a calpestarla e quasi sempre a insozzarla e disonorarla, soprattutto quelli che pensano di esserne proprietari.
Chiaramente l’abito non fa il monaco e la descrizione del mio abbigliamento da hippie rientra pienamente nel discorso sulla moda mentre, al contrario, la filosofia hippie non c’entra (quasi) nulla con stoffe, colori e lunghezza dei capelli. Ha molto a che fare invece col rispetto della natura, con la non violenza, con il rifiuto della guerra, con l’amore universale e, soprattutto, con un sacco di musica meravigliosa.
Nel ’72, dunque, credevo non ci fossero altri hippie in città così quando andai al concerto di Santana rimasi di stucco nel vederne, pigiati nel palazzetto, a migliaia. Ho già accennato a quel concerto, vi ho detto che, pur non essendone davvero sicuro, ho deciso che è stato il primo della mia vita e che è avvenuto nell’anno di cui stiamo parlando. Potrebbe non essere del tutto vero ma non conta poi molto, il fatto è che lì scoprii che c’era un sacco di gente che si vestiva come me e che la versione di Samba Pa Ti che suonavo non corrispondeva minimamente all’originale.
Mettiamo subito le cose in chiaro con i tizi che si vestivano da hippie: condivido in pieno le parole di Sam, in The Big Chill di Lawrence Kasdan, quando racconta di quelli che, anche se si vestono come te e hanno avuto esperienze simili alle tue, non è detto che siano come te. Lì in mezzo c’erano sbarellati, fricchettoni, tossici, prostitute e magnaccia ma, a parte me, di hippie non ce n’era neppure uno. E’ addirittura possibile che non ce ne siano mai stati davvero, nel nostro paese, e che io sia rimasto incastrato in un sogno ispirato da letture precoci che non avevo capito bene o che avevo capito troppo bene. In Italia si appartiene a qualcosa in modo sempre superficiale, è per questo che è così facile cambiare idea, ideali, definizioni e schieramenti, che è così facile l’adesione parziale a movimenti e pensieri sociali, è per questo che abbiamo i vegetariani, i vegetaliani, i latto-ovo vegetariani, i crudisti, i vegan e i fruttariani e non semplicemente dei vegetariani che esprimono il proprio amore per gli animali in maniera differente. Qui da noi è sempre l’abito che fa il monaco, è sempre e solo una questione di moda (intrisa di interesse e opportunismo) che può cambiare a ogni stagione. Non c’è mai niente di definitivo a parte me, che continuo a considerare belli e giusti i valori hippie, che continuo a considerare la guerra, comunque la si chiami, di gran lunga il più grande crimine che l’uomo possa commettere, che continuo a credere che chi usa la violenza, a qualunque titolo, sia un bruto e che chi uccide un altro uomo, con qualunque nobile ragione alle spalle, sia solo un volgare assassino.
La situazione nel ’72 era la seguente: non avevo mai ascoltato un disco intero dei Santana ma solo pezzi sparsi che mi piacevano molto e che mi avevano fatto capire che Carlos era naturalmente il mio chitarrista di riferimento, nonostante ne amassi un sacco di altri. Non possedevo ancora una chitarra elettrica ma solo una piccola acustica Eko, ma decisi di imparare ugualmente tutti i brani che conoscevo del musicista messicano anche se, effettivamente, non ne conoscevo neppure uno, avendo sentito al massimo un paio di volte, distrattamente, solo Black Magic Woman, Oye Como Va e Samba Pa Ti. Ma ecco che, per citare Ivan Graziani, in mezzo ai lampi e ai tuoni apparve il nostro amico Gianni con il suo ciuffo alla Little Tony che mi prestò, solennemente, nientepopodimenoche lo spartito originale di Samba Pa Ti.
Che si trattasse della versione di Fausto Papetti non conta poi molto, io la musica sapevo leggerla più o meno come leggevo il persiano antico ma non mi persi d’animo e tra mille difficoltà riuscii finalmente a imparare l’agognata canzone. Dopo la suonai caparbiamente talmente tante volte che a un certo punto pensai di essere addirittura diventato capace e quando finalmente mi ritrovai al cospetto della band californiana che la eseguiva sul palco, mi resi conto che, a parte le prime cinque o sei note, io tiravo fuori una cosa completamente diversa, una specie di Samba Così Così più raccapricciante che no.
Uscendo dal palazzetto gli pseudo hippie si incamminarono verso corso Siracusa, la mia direzione, come in una mistica processione, e io li vidi sfilare uno per uno alla mia destra perso com’ero in un profondo sbigottimento chitarristico: come avevo potuto imparare così male un brano famoso al punto che tutti quanti, all’interno del palazzetto, l’avevano cantato a bocca chiusa creando un effetto musicale meraviglioso? io sarei mai riuscito a suonarlo in maniera corretta o almeno decente? Ancora non lo sapevo ma la risposta era no. Perfino oggi, quando tento di suonare Samba Pa Ti, prende il sopravvento quella mia versione ridicola e senza senso alcuno. In seguito mi andò un po’ meglio con altre composizioni dei Santana, ma questa è un’altra storia.