Ribelle per incompetenza: Duran Duran, Planet Earth (1981)
Planet Earth è del 1981, ma il mio ricordo più vivido di una canzone dei Duran Duran risale al 1987. Io avevo cominciato da poco a strimpellare, con grande fatica, una vecchia chitarra di mio zio – aveva corde di metallo alte e affilate, e già arrivare in fondo al giro di do, per cantare Il cielo in una stanza o Sapore di sale, mi faceva sanguinare le dita. Per conto mio, interpretavo il sanguinamento come un ottimo segno: era una sorta di iniziazione, e doveva per forza preludere alla nascita dei famosi calli di cui lo zio ex chitarrista mi aveva parlato. Mi sembrava che una pratica magica come quella di far uscire suoni articolati da una scatola di legno comportasse per forza di cose un prezzo in termini di ferite. E anche se non riuscivo a immaginare come si potesse passare dal la minore al re minore in un tempo vicino allo zero, mi confortava la facilità dolorosa con cui tramutavo un do maggiore in la minore, semplicemente spostando l’anulare e tenendo ferme le altre dita.
Ma qui e ora, nel 1987, alla festa del mio liceo scientifico, non c’erano né dolore né sangue, anche se c’era parecchio sudore acido di adolescenti ammassati. Io guardavo questo gruppo che suonava Notorious dei Duran Duran (1986), e tutto quello che succedeva sul palco mi sembrava un miracolo luminoso. I suoni che uscivano dalla chitarra erano lisci, patinati, prodotti da corde di nylon morbide come fili di cotone perfettamente amplificati. Il cantante mi appariva come una replica liceale di Simon Le Bon – un ragazzone alto, bello e biondo di quarta o quinta. Il batterista e il bassista facevano muovere in avanti la canzone – la facevano saltellare, perché Notorious saltella più che correre. Il tastierista la adornava di suoni grassi e luccicanti come capelli scolpiti dal gel. Tutto questo avveniva senza sforzo apparente, e il risultato era esattamente quel che doveva essere – la canzone, cioè, era uguale in ogni dettaglio a quella che si sentiva su Videomusic.
Io, per fortuna, ero ancora troppo piccolo per capire se c’erano delle cose che non funzionavano – o anche solo per pensare che se tutto funzionava, se la canzone era proprio uguale, voleva dire che il gruppo si stava producendo in un esercizio assolutamente inutile. Non ero snob, insomma, o il mio snobismo non si era ancora esteso alla musica e al suonare. Allo stesso tempo, non ero, non sono mai stato, lo spettatore perfetto. Anche nel 1987, quando la mia conoscenza della chitarra si fermava a quattro accordi di giro armonico con una pausa troppo lunga fra il la minore e il re minore, quel che volevo era essere sul palco al posto del cantante, al posto del chitarrista, al posto del gruppo. E non perché ci tenessi a farmi vedere – odio farmi vedere, il che rende demenziali le mie scelte di lavoro, secondo lavoro, terzo lavoro e hobby – ma perché volevo essere io a produrre quella meraviglia. Non essendo mai stato capace di costruire una radio o di tirare su una tenda, volevo saper scrivere un libro o suonare una canzone.
Ricordo che dopo il concerto si ballava, e che il mio amico Giovanni – che era grosso, imbarazzato dalla forma in cui si presentava al mondo, e non te lo immaginavi scatenato nella danza – buttava il corpo qua e là, estatico, inarrestabile, per seguire il ritmo di Chuck Berry e delle Bangles. Era una cosa bella da vedere, imprevedibile. Io provavo a imitarlo, ma anche se ero lì con lui, mi sentivo anche un po’ più in là, a bordo pista. Non mi bastava essere quello che si muove con la musica – volevo essere quello che fa muovere gli altri con la musica.
Dopo ci ho provato, ho messo su dei gruppi, e ci siamo sforzati di rifare le canzoni uguali a come le sentivamo su Videomusic. Ma non ci venivano mai proprio precise, per incompetenza e per pigrizia, e allora ho pensato, a un certo punto, che tanto valeva farle completamente diverse. E anche Planet Earth ho pensato che era meglio rallentarla, farla folk – perché non posso competere con Simon Le Bon sul suo terreno, e perché così si sente quanto sono tristi, sotto quella permanente di suoni e luci, le canzoni dei Duran Duran. E insomma, per concludere, io sono venuto fuori da un decennio in cui bisognava uniformarsi per essere bravi, belli e ammirati: e alla fine son venuto fuori originale, per quel poco che lo sono, non per il mio spirito indomabile, ma perché avrei voluto uniformarmi anch’io e non ero capace di farlo.