Povera Piccola
La canzone che oggi è al centro delle mie elucubrazioni è Povera Piccola di Gianni Morandi, uno dei tanti hit che il cantante di Monghidoro mise a segno nel corso dei ruggenti anni ’60. Come già sapete, cari i miei 7 lettori, il Gianni Nazionale era uno dei miei cantanti preferiti ed è assolutamente normale che fossero i brani che interpretava a darmi stimoli, aprire porte, fornire sensazioni e direttive varie. Le sue canzoni e anche quelle degli altri artisti che vi ho citato nel mio articolo precedente (Il mondo cambierà), per esempio C’è chi spera (1967) di Ricky Maiocchi fu per me, allegro bimbo innamorato del Carosello, come un pugno nello stomaco per via del testo pieno di malessere e di oscurità che lasciava intravedere realtà e situazioni che la televisione e le riviste pop ignoravano per ragioni a me del tutto sconosciute. Stranamente nessuna canzone di quella che era la mia cantante preferita in assoluto, Sylvie Vartan, mi è stata utile per la crescita morale e spirituale ma, a pensarci bene, non c’è nulla di sbagliato in questo: quando i Beatles all’Olympia di Parigi, mi pare nel 1964, si presentarono sul palco proprio dopo la bionda bulgara/armeno/ungherese furono accolti da bordate di fischi, motti e lazzi ‘chè i francesi rivolevano indietro la loro ragazza. E di certo non la rivolevano indietro perchè cantava canzoni migliori dei Fab Four o perchè possedeva una voce particolarmente bella o perchè fosse un sex symbol, la rivolevano indietro per le mie stesse ragioni: per non fare incazzare il Padreterno che aveva deciso di usarla come cartina al tornasole per meglio comprendere chi poteva meritarsi il paradiso e chi doveva bruciare all’inferno. Lo capite vero che in quel teatro, nel 1964, non c’era nessuno che aspirasse a una eternità in mezzo all’odore di zolfo? Le canzoni che cantava Sylvie Vartan non erano importanti quanto lo era lei stessa, strumento divino per la redenzione delle animacce fetide che da lì a poco, con la scusa della Summer of Love, fumando l’impossibile si sarebbero modellati un nuovo vitello d’oro contenente chili e chili di sostanze psicotrope.
Ma sto divagando, non nella maniera elegante e verbosa di un Alessandro Manzoni qualunque e neppure in quella alcaloide di un Lester Bangs particolarmente demotivato. Sto divagando con stile arteriosclerotico e questo dovrebbe farci riflettere un po’ tutti: io, come nume tutelare di ogni vostro bofonchiamento e voi contribuenti di quello a cui non vorreste mai contribuire. E viceversa.
A un certo punto della mia ancor breve vita mi resi conto che le canzoni non erano solo una serie di parole cantate ma possedevano una struttura fatta generalmente da strofe, ritornello e inciso, o da qualcosa di ancora più complesso, qualcosa che in Italia, in capo a qualche anno, avrebbe spiegato piuttosto bene Lucio Dalla e, perchè no? anche Umberto Tozzi: una frase musicale ricorrente capace di innalzarsi e abbassarsi pur rimanendo sempre uguale a se stessa. Povera Piccola fu per me esattamente questo, un flashback all’incontrario verso un tipo di brano che nel decennio successivo l’avrebbe fatta da padrone. E da tormentone.