Photograph
Molti non lo sanno ma, tra i membri dei Beatles, Ringo Starr era quello che riceveva più lettere e affetto dai fan ed è perfettamente inutile domandarsi quale fosse la causa del fenomeno: come si poteva non amare Ringo? lui era quello semplice, tendenzialmente felice e vero portabandiera dei valori hippie di pace, amore e fantasia, era quello col naso lungo capace di sparare battute senza senso e senza soluzione di continuità. Era quello che sembrava non indossare la divisa di Sgt. Pepper ma esserci nato dentro. Era Ringo, ragazzi, mica il primo che passa! É per questo che il tempo è stato gentile con lui perchè lui si è rifiutato di cambiare nel tempo, non ha rinnegato il passato, non ha ceduto a mode strampalate o a idee balzane: è rimasto semplicemente Ringo. Facile capire perchè nessuno ha mai smesso di amarlo. Facile capire perchè quando qualcuno mi domanda qual è il filosofo che preferisco rispondo sempre: Sir Richard Starkey, in arte Ringo Starr!
Il ’73 fu un anno complicato, l’unico del quale non ricordo un cielo azzurro ma solo l’asfalto delle strade, era un anno che, considerando l’andazzo, avrebbe potuto protrarsi per chissà quanti altri anni ancora e il buttarmi giù da un ponte non mi sembrava affatto una soluzione così tanto drastica. Non ero bravo a suonare la chitarra ma lo facevo perchè era meglio di niente, perchè scrivere una canzone era un buon modo per sentirsi utili a qualcosa. Mi facevo molti amici che non mi andava più di rivedere subito dopo averli conosciuti e invece che fare il filo alle ragazze passavo il tempo a scervellarmi su Moby Dick di Herman Melville e il Nibelungenlied di Chissà Chi. Sarebbero arrivati anni più felici, certo, ma ancora non lo sapevo e per me la vita era quella lì: persone che non mi piacevano, una scuola che detestavo, la musica, i libri. A peggiorare ulteriormente la già pessima situazione generale Sylvie Vartan non appariva più da tempo sugli italici teleschermi e i Beatles sembrava proprio che si fossero sciolti per davvero.
Era solo l’adoloescenza negli anni settanta, penserete voi, ma io c’ero dentro e non la facevo così facile. Il sogno di cambiare il mondo che aveva riempito di speranze il decennio precedente ormai stava definitivamente svanendo per essere sostituito da qualcosa che, pochissimi anni prima, era stato rudimentalmente anticipato da un film di Richard Rush, dall’esplicativo titolo italiano “L’impossibilità di essere normale” e per fortuna che nessuno sospettava ancora gli anni ’80, altrimenti avremmo senz’altro assistito a lunghe serie di suicidi di massa. Insomma, il futuro non si prospettava così roseo come mi meritavo, il passato evocava soltanto tinte fosche, e comunque ne ricordavo solo le parti peggiori, ma soprattutto non trovavo strumenti capaci di portarmi fuori dalla situazione di stallo nella quale mi trovavo. Fu allora che decisi di allargare le mie letture a filosofi e pensatori vari scelta che, considerando l’età e la mancanza di guide, non fu proprio tra le più intelligenti che potessi fare, giacchè ottenne più che altro il risultato di accrescere ulteriormente la mia confusione. I ragazzi della mia età, inseguiti dai vigili urbani, scarrozzavano ragazze su motorini mai superiori ai 50cc, andavano a ballare e giocavano a minigolf, mentre io tormentavo i librai cercando una buona edizione dell’Avesta e mi addormentavo riflettendo sulla Città del Sole di Tommaso Campanella. Non pare anche a voi che fosse tutto un po’ eccessivo per qualcuno che aveva l’infanzia ancora attaccata alla tomaia delle scarpe?
Fu così che un giorno, trascinando i miei pensieri in Corso Orbassano, vidi Ringo che mi sorrideva dalla vetrina di uno storico negozio di dischi di conseguenza, preso dalla simpatia e dalla nostalgia per la sua vecchia band, entrai dentro e chiesi alla titolare di farmi ascoltare il 45 giri (usanza dell’epoca). Photograph è una canzone triste e me ne resi conto subito, nonostante le mie difficoltà con la lingua inglese, ma l’evidente malinconia del testo si presentava in maniera stranamente Goldoniana, quasi una recita che anticipava la burla finale già ampiamente annunciata dalla bizzarra copertina stellata. Si trattava solo di Ringo, quindi diedi alla signora tutti i soldi che avevo in tasca e mi portai a casa il disco per ascoltarlo cento e cento volte ancora. Non era musica progressiva e neppure rock, forse aveva qualcosa a che fare col pop, sicuramente si trattava solo di Ringo. Improvvisamente il ’74 che mi aspettava pochi giorni avanti mi sembrò meno indecifrabile e più interessante di quel che mi appariva appena qualche ora prima, pur non riuscendo a capirne il perchè. L’origine non poteva essere cercata nel vinile che girava sul giradischi, no, lì si trattava solo di Ringo. Fu quello il momento in cui mi accorsi che anche il ’73 non era stato affatto male come anno: avevo suonato, scritto musica, conosciuto persone e poco importava se di memorabile non c’era nulla, l’indimenticabile sarebbe arrivato col tempo.
Photograph ancora oggi è l’unica canzone capace di farmi rievocare gli anni della giovinezza e quando la ascolto risento profumi che forse non sono mai esistiti, rivivo giorni che non sono mai stati felici come li rammento, e in quella adolescenza che mi sovviene non piove mai, tutte le persone che conosco sono gentili e se il ricordo è malinconico non è altro che un equivoco, un fraintendimento, una scena della Commedia dell’Arte ove Arlecchino serve due padroni si burla di tutti e se viene bastonato non si fa male. Io continuo a saperlo che si tratta solo di Ringo, quello che quando gli chiedevano perchè portasse tanti anelli alle dita rispondeva: “Non posso mica metterli tutti al naso”. Per quanto sia il più importante filosofo della storia, in fondo non c’è da pensarci troppo su, si tratta solo di Ringo.