Oh! doctor
Io non mi ammalo quasi mai e quando lo faccio la malattia deve essere perlomeno memorabile, altrimenti il mio sistema immunitario non è contento. Diciamoci la verità che gusto ci sarebbe nel prendersi un malanno se questo consistesse soltanto di qualche misero starnuto e di un paio di linee di febbre? ma siamo uomini o caporali? quindi, tanto per farvi capire di che cosa stiamo costì straparlando, tutte le malattie infantili che han deciso di farmi visita le ho contratte nella forma più virulenta possibile e, tanto per dirne una, quando fu il turno della varicella ricordo ancora perfettamente il triste dottore che tentennava malinconicamente il canuto capo nel mentre che, rivolto ai miei genitori, mormorava: “ci sono pochissime speranze”. Certo, ero piccolo, il ricordo è li che tremola lontano sullo sfondo e magari le parole realmente pronunciate dal luminare furono “no grazie, la polenta taragna non mi piace, preferisco di gran lunga il flan di spago” ma ciò non ha davvero importanza perchè il succo del discorso non è questo e ve lo direi pure, se solo mi riuscisse di ricordarlo. Volete saperne un’altra? quando il morbillo mi venne a salutare mi trasformai in un essere completamente rosso con, qua e là, alcuni sporadici puntini di pelle bianca e sana e vi risparmio misericordiosamente i dettagli sugli orecchioni, che il ricordo ancora mi duole insieme a quello del gran professore che continuava a scuotere la testolone mormorando illuminati concetti sulla mia salute a sulla polenta taragna. Se avevo molto culo di solito me la cavavo in 40/50 giorni, altrimenti non avevo culo. Come risultato o reazione a cotanta sfortuna sviluppai anticorpi davvero incazzati e dalla lontana infanzia fino ad oggi mi sono ammalato non più di due o tre volte. Non ho mai fatto l’influenza, per esempio, perdendomi quel che per molti è un tradizionale periodo di riposo invernale accompagnato da berretti di lana, coperte, soap opera in TV e bicchieroni di aranciata zeppa di vitamina C.
Insomma, correva l’anno domini 1974 o forse addirittura 1975 e mi ero ammalato di una qualche cosa che ormai non rammento più ma che per superare le mie ipersviluppate difese doveva essere parecchio forte e di molto astuta così, mentre meditavo sulla umana caducità e sulla relazione che da sempre intercorre tra la musica pop e i pantaloni alla zuava, mi sorbivo tutti i libri della mia libreria, le riviste di mia sorella e i volumi di politica di mio padre. Non ricordavo più da quanto tempo ero malato, forse da una settimana oppure dall’alba della civiltà e non miglioravo mai di un niente, rimanendo sospeso in una staticità oserei dire mitologica, cristallizzato in un pigiama azzurro da ospedale e in un bicchiere di orzata sul comodino che non potevo bere poichè l’orzata non mi piaceva. La sera, avvolto in coperte dai colori metafisici, mi trascinavo a far l’infermo sul divano nel tinello, non essendo più in grado di leggere, e davo il colpo di grazia ai miei occhi (e anche un pochino alle mie orecchie) fruendo della ricca offerta che i due canali televisivi esistenti avevano da propormi. Finiva regolarmente che svenivo intorno alle 21,30 per risvegliarmi il mattino dopo nelle medesime condizioni di salute del giorno precedente, però nel mio letto e domandandomi come ci ero tornato avendo come ultimo ricordo vivido due pennelloni brizzolati che, dal video, si dibattevano in una dissertazione assai forbita che, partendo dall’afta epizootica, sfiorava Catullo per terminare sulle incantevoli pennellate di Antonello da Messina senza mai raggiungere il nocciolo della questione: non li capivo nemmeno io che già avevo letto Joyce e riuscivo a dare un senso ai testi di alcune canzoni ermetiche che, obbiettivamente, un senso proprio non ce l’avevano. Ve l’ho detto, era una situazione surreale e magari, a causa delle molte medicine che stavo prendendo, anche un po’ psichedelica: si trattava di una una malattia che non aveva inizio e per questo che non aveva nemmeno fine, un Paradosso della medicina, una situazione vista attraverso l’obiettivo velato di Helmut Newton, un daggherrotipo incastonato in un tempo di mezzo immutabile e imperscrutabile e per giunta conservato al buio per le ovvie ragioni che entrambi conosciamo. E quando dico entrambi mi riferisco a me e a voi, cari i miei 7 lettori, non sottintendo nulla che abbia a che fare con roba vicino alla schizofrenia anche se, lo potete confessare, cominciate a sospettarlo, state tranquilli: la vera ragione è che sono momentaneamente a corto di pronomi adatti. Ma basta divagare e ritorniamo al mio caso clinico: avete presente “Ricomincio da capo” (Groundhog Day), il bel film di Harold Ramis con Bill Murray e Andie MacDowell? ecco, la situazione era più o meno quella, le giornate erano tutte uguali, non peggioravo né miglioravo, ero semplicemente malato.
Ed ecco che un bel dì, anzi una bella sera, subito dopo il rituale svenimento sul divano aprii gli occhi e, meraviglia delle meraviglie, non mi ero come di consueto svegliato al giorno successivo ma stavo ancora davanti alla TV, solo che al posto dei due accademici maestri di astrazioni o del ricorrente film del 1925, il tubo catodico proponeva un tizio al pianoforte, Richard Myhill, che picchiava sui tasti in uno stile tra l’honk tonk e il glam, indossando una giacca di lamè sotto un buffo cappellino e cantando una canzone opportunamente intitolata Oh! doctor. E io pensai, non capendo una parola di inglese, che quel pianista fosse lì per me, che stesse chiamando una sorta di dottore celeste, l’unico capace di tirarmi fuori dalle pastoie sanitarie dalle quali non riuscivo a liberarmi. Oh doctor, can you help me?
Dalla cucina arrivava forte l’odore di caffè, pur essendo impossibile giacchè tutta la famiglia dormiva, io ero semicosciente sul divano e Richard Myhill non si era mai mosso dalla televisione.
Chiusi gli occhi e mi addormentai. Quando li riaprii ero completamente guarito.