Neil Young, Il sogno di un Hippie
Credo che Neil Young sia stato il mio primo mito adolescenziale. Ce ne sono stati altri che lo han preceduto, è vero, mi viene immediatamente in mente Sylvie Vartan, ma qui cado nell’ovvio perchè se avete la mia età e da bambini non siete stati fan sfegatati di Sylvie Vartan allora è segno che avete qualche serio problema psichiatrico e vi consiglio caldamente di correre al più presto da uno strizzacerveli per risolvere la faccenda prima che sia troppo tardi: ve lo immaginate che guaio finire davanti al Padreterno che, con una faccia pericolosamente accigliata, scorrendo le pagine impolverate dell’immacolato libro della vostra vita dovesse fermarsi su una frase sottolineata con la matita rossa? “Ma cosa leggo qui, santi numi” griderebbe pieno di disgustata meraviglia “non ti piaceva Sylvie Vartan? vade retro infedele subdolo e flatulento, essere immondo e sigismondo, precipita giù al Purgatorio per settanta milioni di anni e quando infine sarai purificato vattene pure all’inferno che se ti rivedo da queste parti è la volta che mi arrabbio seriamente”.
Su Sylvie Vartan, sono in buona compagnia e son praticamente sicuro che il prossimo papa concederà una indulgenza tombale a chiunque ricordi i titoli di almeno due delle sue canzoni in italiano.
Altri miti preadolescenziali condivisi con la massa furono Morandi e Battisti, Beatles e Rolling Stones mentre per un percorso più personale possiamo fare un altro elenco che comprende i Corvi, i Giganti, i Brutos, la straordinaria attrice Micaela Esdra e in misura minore Pooh, Ricky Maiocchi, Gian Pieretti, Antoine e qualcun altro ormai sprofondato nella memoria irrimediabilmente persa.
Ero un bambino, comunque e, a parte Sylvie Vartan che come sappiamo è un dogma religioso, non so dirvi come gli artisti sopra citati siano potuti entrare nel mio cuore. Forse attraverso la televisione e quindi per volontà di chi dirigeva l’unico canale allora a disposizione (ma forse erano già due), o magari attraverso le riviste settimanali che compravano mia madre o mia sorella. Non fu una scelta totalmente mia e per quanto tutti coloro che ho citato mi piacciano ancora e sebbene li ricordi sempre con affetto è possibile che crescendo in un altra famiglia o non possedendo un televisore, le mie preferenze avrebbero potuto prendere un’altra strada, totalmente differente.
Il primo 33 giri che comprai da adolescente in grado di intendere e di volere1 fu Brain, Salad, Surgery degli Emerson, Lake & Palmer, 33 giri che possiedo ancora, lo feci per la bellissima e inquietante copertina di H.R. Giger, perchè quelli erano tempi nei quali le copertine erano parte integrante del disco e pensai che la musica contenuta all’interno doveva essere fantastica. Credo fosse il ’73 e l’investimento per me fu notevole perchè lo comperai al reparto dischi della Standa e non alle bancarelle come facevo di solito quando ero più piccolo. Non rimasi deluso dal disco, ma gli EL&P non divennero certo i miei artisti preferiti. Subito dopo scoprii il DiscoLò2 e il suo reparto delle offerte e incontrai lì qualcosa di splendido, tra le molte decine di proposte, si intitolava After The Gold Rush e la copertina faceva davvero schifo con quella insensata solarizzazione della faccia di colui che, presumibilmente, era il titolare dell’opera, il retro però era fantastico, mostrava un fondoschiena indossante i jeans più belli che io avessi mai visto in tutta la mia ancor breve vita, senza tasche posteriori ma con bellissime toppe variopinte cucite ad arte, dei passanti particolari e una cintura che forse era la più entusiasmante esistente al mondo. Roba da standing ovation. “Li voglio anche io dei calzoni così” pensai e un attimo dopo mi ritrovai a casa con un vinile del quale non conoscevo neanche l’autore ma che, comunque, non avevo pagato molto, forse perchè risaliva a tre anni prima. L’autore si chiamava Neil Young e After the Gold Rush non ce l’ho più, devo averlo venduto insieme a centinaia di altri LP in un momento di “cambiamento” o perchè semplicemente mi servivano soldi, ma quando lo misi sul piatto dello stereo capii che mi trovavo davanti al mio primo mito completamente adolescenziale, che non mi portavo dietro cioè dall’infanzia, e che come mito non era niente male. La traccia iniziale, Tell Me Why, se devo essere sincero non mi colpì più di tanto, non aveva nulla di speciale e credetti di trovarmi di fronte a un artista mediocre, però la successiva, quella che dava il titolo all’intero album, mi fece fare il classico salto carpiato all’indietro in direzione della chitarra, perchè dovevo assolutamente imparare subito a suonarla. I brani seguenti subirono lo stesso infausto destino e ancora oggi li strimpello, di tanto in tanto, soprattutto Only Love Can Break Your Heart, dedicata all’amico Graham Nash che aveva appena rotto con la fidanzata Joni Mitchell.
A quei tempi là prendevo regolarmente in edicola Ciao 2001 e il nome di Neil Young non mi doveva essere del tutto ignoto visto che, inoltre, conoscevo i Buffalo Springfield e il loro superclassico For Wath It’s Worth, ma sapete com’è, quelli erano giorni in cui le informazioni, certe informazioni, viaggiavano lente, storte e confuse, piene di fantasia e completamente riplasmabili da chi le riceveva. Erano tempi creativi, sapete, e la “conoscenza” un’arte della quale impadronirsi un po’ alla volta, soprattutto per quel che riguardava la musica rock, pop, giovane, alternativa o in qualunque altro modo la si volesse definire.
Ho acquistato altri Long Playing di Neil Young, dopo, l’immenso Harvest per primo (anzi secondo) e poi ancora fino a Rust Never Sleep, da molti considerato un capolavoro e che io invece barattai subito, senza mai pentirmene, con Ultravox! degli Ultravox! Il fatto è, cari i miei 7 lettori, che esistono molti Neil Young e difficilmente riescono a piacere tutti quanti contemporaneamente, io ho sempre apprezzato quello acustico oppure accompagnato da una band di stampo country, non so cosa farmene del suo lato sperimentale o di quello rock, c’è gente parecchio più brava di lui a far certe cose, mentre per quelle che io preferisco è davvero unico.
Neil Young comunque ha subito faticato a tenere il mio passo e da mito si è presto trasformato, come tanti altri del resto, in temporaneo mito giovanile, senza risentirne troppo, mi pare: entrambi abbiamo continuato con le nostre cose, le nostre crescite, i nostri sbagli, i nostri successi. Io in minore lui, come sappiamo, in maggiore.
Il Sogno di un Hippie, titolo italiano di Wagin Heavy Peace, edito da Feltrinelli, è una strana biografia, non lineare, in perfetto stile Neil Young. Piena di pudore e ripensamenti, riconoscimenti ai colleghi e ricordi di amici, in alcuni punti può apparire ripetitiva, soprattutto quando si dilunga sui progetti e le iniziative commerciali dell’autore ma in realtà si rivela presto come una finestra spalancata sulla sua anima, proprio sull’anima, escludendo tutte le sciocchezze delle quali le attuali auto/biografie sono zeppe. Se cercate del gossip o piccanti rivelazioni dovete andare da un’altra parte, qui potrete invece capire solo perchè Neil Young, nonostante le sue mille facce, è stato, ed è tuttora, uno degli artisti più coerenti e intransigenti dell’intera storia del rock, del perchè non fa sempre gli album che piacciono a me e a milioni di altri fan per realizzare, al contrario, cose nelle quali sa benissimo che perderà dei soldi. Qui conoscerete la sua famiglia, i suoi figli, sua moglie e anche i loro problemi, conoscerete i musicisti con i quali ha suonato, gli attriti con l’industria discografica e il suo modo di tenere insieme tutto un mondo che per definizione è bizzarro e slegato. E poi verrete a contatto con le sue passioni, i trenini e le grandi macchine classiche americane e comincerete a chiedervi perchè diavolo state leggendo questo libro e perchè non riuscite a smettere.
Ve l’ho già spiegato il perchè: Il Sogno di un Hippie è una finestra aperta sull’anima di Neil Young e che ci piaccia o no lui è uno dei nostri miti giovanili (se avete la mia età, altrimenti diventerà un vostro beniamino non appena vi capiterà di ascoltare Harvest o After The gold Rush) e leggendo, pagina dopo pagina, ce ne ricordiamo tutte le sacrosante ragioni, ritorniamo indietro a quegli anni lì e li riviviamo di nuovo insieme a lui. E infine facciamo la conoscenza di Susan, la prima moglie, italiana, di Neil Young quella che, insieme a tanti altri capi di abbigliamento, aveva preparato quei jeans fotografati nel retro del disco che, voi e io, avevamo trovato nel reparto delle offerte del DiscoLò, tramite il quale avevamo improvvisamente capito che l’infanzia era terminata e che proprio lì, oltre la vetrina del negozio, c’era tutto un meraviglioso mondo da scoprire e, con un po’ di fortuna, da conquistare.