My Favourite Season – Intervista a il Moro
Prima di pubblicare una intervista, in genere, scrivo sempre qualche parola di introduzione. E’ una cosa che si deve fare (quasi) per forza, è un modo per presentare l’ospite ai lettori, spiegare chi è e che cosa ha fatto. Uno tra gli scopi dell’introduzione è trovare qualche chiave per aprire le porte dell’interesse di quelle persone che normalmente non sarebbero molto attratte dall’articolo, un’altra ragione è che non si può mica pubblicare una intervista da sola senza neppure una qualche riga di presentazione, andiamo, è un fatto assodato, palese, evidente, lapalissiano e indiscutibile! Ma questa volta, e solo per questa volta, mi piacerebbe usare un’altra via. Mi piacerebbe fare come si faceva una volta, che si metteva il disco sul piatto e lo si ascoltava, in silenzio, annuendo di tanto in tanto, sottolineando i passaggi più “importanti” indicando col dito quell’affare di vinile nero che girava a 33 giri per minuto (adesso si direbbe 33 GPM). Voi siete troppo giovani per capire, carissimi lettori, quindi dovete credermi sulla parola quando vi dico che una volta l’ascolto di un disco era un rito che facilmente sfiorava la religiosità e che quando i CD ancora non c’erano, nè tantomeno esistevano strani formati digitali muniti di bizzarri suffissi, la musica incisa non era un prodotto di consumo, com’è adesso, era un’esperienza che andava a formare il carattere di chi l’ascoltava.
Mi piacerebbe ascoltare il disco del Moro insieme a voi, cari lettori, proprio come una volta ascoltavo con gli amici Aria di Alan Sorrenti, Tubular Bells di Mike Oldfield, Brain Salad Surgery di EL&P, Emotional Rescue dei Rolling Stones. Mi piacerebbe farlo come se fossimo ancora negli anni ’70 e discutere con voi di quella chitarra, di quella linea melodica, di quel testo così misterioso. Ma naturalmente questo non è possibile, nè lo sarà mai più. Un disco non è più un evento, è solo un prodotto e questo può capitare solo perchè quegli anni sono finiti per sempre. Io posso solo dirvi che mi dispiace davvero che ve li siate persi perchè sono stati un momento unico nella storia dell’umanità e poca gente è capace di raccontarli. Quasi nessuno. Nessuno.
Il disco di Massimiliano Morini (Moro) mi ha riportato proprio a quegli anni lì e questo al di là delle esplicite dichiarazioni dell’autore sullo stile e sul genere a cui l’opera fa riferimento. “My Favourite Season” può andare oltre le intenzioni di chi lo ha creato e fare un po’ di testa sua ed essere sì pop ma non nel significato di “facile ascolto” che spesso si associa a questo termine, quanto a quello di “popolare”, vicino cioè alla sensibilità della gente e di conseguenza capace di toccare alcune corde emotive in chi accoglie questa musica senza scivolare, appunto, nel “facile ascolto”. E questo, caspita, è proprio l’effetto che ci facevano i Long Playing in quegli anni là, quando erano fatti per amore, per ambizione, per le ragazze, per creatività, per la fama, per dolore e per soldi e non solo per soldi, come in questi tempi un po’ troppo semplici nonostante la complicatissima tecnologia che ci circonda.
Massimiliano parla di anche Folk-Rock e il pensiero corre subito ai Byrds che lo hanno di fatto inventato, o ai Turtles che lo hanno venduto meglio, ma io credo che il Folk-Rock in realtà non sia mai esistito, credo fosse soltanto un modo per dire che alcuni gruppi rock suonavano le canzoni di Bob Dylan! C’è un termine ormai, inspiegabilmente, in disuso per definire quel Rock più raffinato ed elaborato che non fa dell’aggressività o della velocità il proprio punto di forza e quel termine è (era) Soft Rock. Io penso che il disco del Moro sia Soft Rock. Un disco anni ’70 sofisticato e accattivante, con alcune canzoni che potrebbero tranquillamente appartenere al repertorio di Donovan, di Cat Stevens, dei Byrds, di Crosby, Still, Nash & Young insieme o separati.
Però non sono così sicuro di quel che dico perchè, vedete, io ho amato molto la musica che il Moro suona ma, intraprendendo una mia personale ricerca verso le origini, e portandola avanti negli anni, sono effettivamente arrivato alle origini, origini non tanto definite e non so bene di cosa. Come effetto collaterale mi è capitato di perdere tante, troppe cose per la strada. Ho dimenticato di tenere ben stretto quel che già avevo conquistato e così questa musica non la ricordo troppo bene, e faccio dei nomi un po’ a caso, forse per invidia verso quei giornalisti a cui basta ascoltare 15 secondi di una canzone per sciorinarti decine di nomi il più delle volte sconosciuti ai più. A volte sospetto che questi nomi siano inventati di sana pianta e che il loro fine ultimo sia quello di farci sentire ignoranti nei confronti del giornalaio, pardon “giornalista”, che ce li ha magnanimamente, e furbescamente, elargiti. Ma se i riferimenti possono essere opinabili la musica non lo è, è semplicemente sè stessa e io ho un modo infallibile per “ricordarla”, per trovare una chiave di lettura (sempre lei) e viene dal mio vecchio maestro di Yoga. Lui diceva “Nella meditazione sono molte le cose che possono distrarre, che possono interrompere l’Ohm. Allora fissa l’attenzione su una parte del tuo corpo, respira e dimentica il resto e vedrai che tutto andrà bene”. Il mio maestro di Yoga era in realtà un ciarlatano che aveva letto un paio di libri in biblioteca e cercava di imbrogliare degli stupidotti come me, diceva d’essere vegetariano, ma mangiava carne di nascosto e in quantità industriale. Poteva essere qualunque cosa, ma non era certo uno yogi. Eppure sulla storia della meditazione ci aveva preso: io fissavo la mia attenzione sull’alluce destro e improvvisamente il respiro era perfetto, l’ohm era ovunque, le vibrazioni intorno erano tutte positive e fantastiche. Era un imbroglione da quattro soldi il mio maestro, sì, ma non era un cattivo maestro e io ho mutuato da lui il modo di ascoltare la musica che, al primo impatto, non riesco a capire o che non riconosco più. Forse sono un ciarlatano anche io, ma non per questo debbo essere per forza un cattivo maestro, non credete? Io faccio così: scelgo uno strumento e lo metto al centro del mio ascolto. Lo strumento che ho scelto per il disco del Moro è il basso, ho cominciato ad ascoltarlo e improvvisamente tutto ha trovato la propria logica collocazione, ogni altro strumento, ogni intervento vocale, e mentre questo succedeva tutto diventava bello e le canzoni mi scivolavano sotto la pelle quasi senza che me ne accorgessi, riportandomi a quegli anni di cui abbiamo già parlato, ai tempi in cui cercavo di riprodurre la chitarra di Neil Young o di Jackson Browne, oppure i loro capelli, ai tempi in cui potevo suonare o ascoltare Like A Rolling Stone per ore. O forse è stato solo che nel disco del Moro il basso è suonato in realtà da un chitarrista, e quel chitarrista/bassista ha un gusto speciale nel suonare/costruire le canzoni intorno ai riff, proprio come gli Stones e tanti altri grandi della musica che, loro sì, ricordo bene perchè non li ho persi per strada.
E così debbo dirvi che “My Favourite Season” è proprio un disco bello, un disco moderno sì, ma con canzoni capaci di evocare un epoca più artistica e pura, canzoni che scivolano via senza fare male ma lasciando un traccia che rischia di rimanere indelebile.
(Maggiori informazioni sul Moro qui: www.truemoro.com – www.myspace.com/truemoro – www.facebook.com/#!/pages/Moro-official-artist-page/128908780478341)
Stonehand intervista Massimiliano Morini
Ciao Massimiliano, ho attentamente ascoltato il tuo album. Il tuo è un “genere” (mi scuso per il termine) con cui avevo molta confidenza da giovane e che ho anche suonato, in quei tempi là. Ora però non sono più tanto capace di decifrarlo perchè mi pare si perda laggiù tra Neil Young e un milione di artisti che non ricordo più e con una leggera spolverata Beatlesiana. Perchè hai scelto di cantare in inglese e non in italiano?
Perché l’inglese è la lingua in cui scrivo (insegno inglese all’Università di Udine, faccio roba accademica in inglese, traduco dall’inglese, scrivo narrativa non pubblicata in inglese, canzoni in inglese). Ho provato a scrivere in italiano – non canzoni, altro – e per ora non sono capace. So che sembra una cosa snob, ma il fatto è che da vent’anni leggo e ascolto solo roba in inglese. In più, ci sarebbe da fare un discorso che abbozzo appena sull’italiano letterario: se scrivi in italiano, ci si aspetta (anche il tuo superego si aspetta) che tu scriva “scorgere” e non “vedere”, “recarsi” e non “arrivare”. È l’italiano delle maestre, lodato in tutti i supplementi letterari d’Italia e bollato come poetico. Appena lo usi, quello che cerchi di raccontare smuore, si spegne. Enrico (Farnedi NDR) mi piace perché se ne fotte, e corre il rischio di scrivere come parla. La lingua inglese ha almeno trecento anni di tradizione, nello scrivere come si parla (da Robinson Crusoe, più o meno). E anche in poesia, Wordsworth si definisce un “uomo che parla ad altri uomini” nel 1802!
In più, il (folk-pop-)rock ha fame di tronche e monosillabi, e l’italiano funziona solo se lo ipersemplifichi. Perfino Enrico, quando fa pop, è costretto a concedere molto alle rime vuote (mai/sai), e si salva mettendo cose buone INTORNO alle rime. In “Rain on a Rainy Day” sono riuscito ad arrivare a un ritornello che dice ESATTAMENTE quel che voglio dire in una brevissima serie di monosillabi e bisillabi:
It takes perfect timing to
be the rain
on a rainy day
In italiano si diluisce subito:
Ci vuole tempismo perfetto per
essere la pioggia
in un giorno di pioggia
Detto questo, hai identificato la doppia impronta inglese/americana che è la cifra e forse il problema di quel disco (se lo si ascolta come disco). Di mio amo tutte le canzoni (ci ho messo veramente il sangue per scriverle), ma da ragazzo anni ’70 sono un po’ insoddisfatto di come suona l’insieme (e dell’arrangiamento un po’ “pannoso”, ma questo è un altro discorso). Col secondo sto cercando modi/trucchi per rendere il tutto più omogeneo (e un po’ più “secco”), e sto scartando canzoni che mi piacciono ma che sono troppo distanti dalla media.
Rimanendo ancora un po’ sulla lingua italiana, lì dalle vostre parti (più o meno) c’era uno straordinario scrittore che sapeva scrivere splendidamente nella lingua parlata e che si chiamava Giovannino Guareschi. Non è impossibile farlo con l’italiano e mantenere una valenza artistica apprezzabile. Posso chiederti di provarci, almeno? perchè penso che le tue canzoni abbiano un taglio “internazionale” che le canzoni in italiano di solito non hanno e il risultato potrebbe riservare parecchie sorprese.
Quanto a Guareschi e alla lingua parlata, la mia impressione è: sì e no. Sì per i personaggi, ma riguarda il narratore Guareschi e troverai un sacco di forme letterarie e auliche. E nonostante questo, Guareschi è stato confinato nel limbo degli scrittori “popolari”, proprio per il suo stile giudicato troppo semplice. In Italia gli unici modelli accettabili sono Gadda (fallo strano) e Pasolini (fai l’impegnato). Il mio modello di romanziere italiano è Bassani, che usava una lingua media ed era un dio dello stile indiretto libero. E quei boriosi del gruppo 63 ovviamente gli diedero della Liala.
Per quanto riguarda le canzoni e l’italiano (grazie per il “taglio internazionale”), non lo so. La risposta numero uno è che non so se sono in grado di scrivere in italiano, che non decido come scrivo, ma è quel che voglio raccontare a decidere la forma che prende. La risposta numero due è che finora, in italiano, sono riuscito a scrivere solo cose ironiche… a pensarci bene, la maggior parte dei migliori cantautori italiani scrive cose ironiche. Quindi, insomma, non so.
Il discorso sulla lingua italiana applicata alla canzone è interessante, anche perchè io non l’ho mai visto in questi termini, alcuni (anche più di alcuni) anni fa ero un prolifico autore e quello che facevo era incastrare delle parole nella musica, parole che fossero belle, suonassero bene e avessero un senso. Facevo un po’ quello che fanno tutti i parolieri del mondo cercando di metterci dentro un po’ di arte e non solo di mestiere. Io credo che si tratti solo di una questione di fiducia nei propri mezzi, posso citare Lucio Dalla che non si sentiva capace di scrivere cose buone in italiano e si serviva di parolieri vari, e perfino di Roberto Roversi, per dare una lingua alla propria musica. Poi ha provato a fare da solo, con “Come è profondo il mare”, e da lì in poi mi pare che se la sia cavata bene…probabilmente questo è un discorso sterile perchè sospetto che la tua sia una scelta artistica e basta, quindi da rispettare così com’è.
Sull’italiano quello che dici è vero, e sarei curioso di sapere che canzoni hai scritto: ma secondo me nel pop-rock c’è un po’ meno libertà metrico-sillabica, e quelli che lo fanno o semplificano [Vasco Rossi/Ligabue – e non dico che la semplicità sia di per sé un male, ma non è cosa mia] o “distorcono” [Battiato/Gazzè])
La “pannosità”, termine geniale, negli arrangiamenti del tuo disco, alla quale hai accennato in precedenza, l’ho notata anche io, ma credo che un piccolo eccesso sia perdonabile quando si tratta di opere prime, a volte gli eccessi sono addirittura il punto di forza di un lavoro discografico, basta ricordare il bellissimo “Cenerentola e il pane quotidiano” di Alberto Camerini o “Musica Ribelle” di Eugenio Finardi, senza andare a scomodare Phil Spector e altri teorici della superproduzione. Personalmente amo molto i suoni stradaioli, pensi di muoverti in questa direzione per il prossimo lavoro o cercherai di rimanere comunque in un contesto più raffinato?
Quanto alla panna, sì, vorrei fare qualcosa di un po’ più secco, ma allo stesso tempo non sono di quelli che amano i suoni brutti per suonare “Indie”. Per indole, tendo a non trattare male la gente – soprattutto se mi ascolta – e questo si riflette in quello che faccio. Insomma una via di mezzo, credo. Un primo passo, in ogni caso, sarà quello di limitare il novero dei suoni: un suono di chitarra acustica, uno di chitarra elettrica pulita e uno di chitarra elettrica distorta, un solo organo, un solo piano, un set di batteria ridotto all’osso, ecc. Per ora mi sto registrando da solo con un microfono, un pc e un mixer, e spero di poter usare un po’ delle cose che sto facendo.
Puoi dirmi qualcosa sui musicisti che hanno suonato con te?
Molto volentieri: Lorenzo Gasperoni è un fenomeno e ha molto gusto (non dà quasi mai a vedere che è un fenomeno). Su “Fake it” gli ho detto: “Dai, qui fammi un arpeggio-riff alla Johnny Marr, e lui l’ha fatto (“No, dicevo con calma, a casa”, gli ho detto io). Nei Formazione Minima (teatro-canzone) suona l’acustica e scrive la musica, con me si sfoga come chitarrista e bassista elettrico.
Francobeat Naddei è anche un cantautore in proprio (Francobeat, per l’appunto): sta per fare uscire il suo secondo disco, Mondo Fantastico – poesie di Rodari musicate da lui. Oltre che tastierista, è fonico e produttore in proprio. Ha un orecchio notevole.
Alessandro Rosti è un batterista di San Marino, allievo di Tommy Graziani. È bravo, ma dopo aver registrato mi sono reso conto che non avrei dovuto chiamare un batterista – semmai usare dei suoni di batteria.
Qual è stata la genesi del disco? come ci sei arrivato? avevi delle canzoni che ti friggevano tra le mani o ci hai lavorato registrando?
A spingermi a fare il disco, e a presentarmi al (loro) produttore, sono stati i Formazione Minima (e quindi anche Lorenzo, il chitarrista), che avevano sentito due cd che mi ero fatto da solo (nello studio di Francobeat). Quindi c’erano delle canzoni che Lorenzo voleva fare, e che si era immaginato in un certo modo (Re(a)d, Half a Man, Earth to my Moon) vecchie di cinque-sei anni, e altre nuove che volevo fare io (Sparks, Now, Rain on a Rainy Day). In sostanza, anche se so che sembra assurdo, a me fa l’effetto di quei best of che hanno anche un paio di canzoni nuove.
Pannosi o meno che siano, gli arrangiamenti sono complessi e piuttosto ben curati. Chi si è occupato di questo lato della realizzazione del disco?
Direi io e Lorenzo, in ordine sparso a seconda delle canzoni – con Francobeat che è intervenuto dopo e si è infilato negli interstizi.
Puoi dire qualcosa di particolare sui singoli brani, da cosa sono stati ispirati e se ce n’è qualcuno in particolare a cui tieni più che ad altri?
Domanda difficile – no, direi che tengo a tutti nello stesso modo. Forse ‘Half a Man’, che era un tentativo di infilare più parole possibili (quasi rappandole) in un contenitore pop quasi beatlesiano, è quella che mi rappresenta di più – ma nella mia testa doveva venire un po’ diversa..
Sparks voleva essere una specie di inno e di canzone di Natale allo stesso tempo (avevo in testa, in qualche modo, White Winter Hymnal dei Fleet Foxes), una cosa martellante, dolorosa e gioiosa allo stesso tempo.
Now è esattamente quello che dice il titolo: l’ora che ti arriva addosso e ti rovescia (cosa che succede molto di rado). Credo che questo si senta in qualche modo sia nelle parole sia nel procedere degli accordi e della melodia. Di quella canzone, adoro il modo in cui il mio arpeggio si incastra con quello di Lorenzo, e il fatto che non ha un vero centro (com’è giusto).
Fake It è una delle mie rare canzoni ‘narrative’ – mi piace perché credo di essere riuscito a raccontare una storia (due che lasciandosi si fanno a pezzi) attraverso due o tre lampi, rapidissimi come la musica.
I know my life is no longer my own prende spunto dalle melodie utopiche alla CSN&Y, solo che io nel parlare di figli (vedi Teach your children well) sono all’estremo opposto, assolutamente antiutopico.
Infine, due righe su Earth to my moon, che racconta un nuovo incontro con una ragazza. La cosa più banale del mondo, ma sono fiero del fatto che in molti abbiano pensato (sbagliando) che fosse autobiografica. In realtà per certi versi potrebbe essere una specie di piccolo manifesto, perché quando l’ho scritta voleva essere una poesia di Cavalcanti (una specie di teoria amorosa in versi che fosse anche pura musica vocalica) dentro a una canzone di Paul Weller. Non ci sono riuscito (ovviamente), ma in un certo senso è quello che vorrei fare – o potrei dire che il mio obiettivo è scrivere testi degni di Leonard Cohen in contenitori folk-pop-rock.
La copertina del disco è bella e un po’ strana, con molti elementi romantici e crepuscolari contrastati dal lineare bianco e nero e dall’espressione seria e attenta della donna. Chi è l’autore?
Di Fabio Cimatti, un amico forlivese che lavora come informatico ed è un grande fumettista mancato (per pigrizia e mancanza di ambizione, suppongo). Ha anche un piccolo curriculum come disegnatore di copertine, e lo consiglio a tutti.
Qual è stata la tua formazione artistica? sei autodidatta o hai studiato musica nelle sedi istituzionali?
Autodidatta, ahimè. In pratica sono cresciuto con la mia chitarra acustica. A volte (per esempio quando suono dal vivo e non sento un accidente) vorrei avere un po’ di automatismi forti in cui rifugiarmi. Ma credo che l’ignoranza un po’ mi aiuti a fregarmene quando scrivo, a preoccuparmi solo di quello che funziona.
Vuoi dire qualcosa sul tuo percorso artistico? quando hai iniziato a suonare e attraverso quali esperienze sei arrivato al punto in cui sei ora?
Vedi sopra. Potrei aggiungere che ho cominciato a suonare negli anni ’80, quando c’era l’idea che fare musica fosse soprattutto una pratica di laboratorio, di studio. Questa cosa mi è rimasta, e anche se adesso mi diverto a suonare dal vivo, la mia dimensione ideale è la stanzetta chiusa con pc, mixer, microfono e chitarra. Sempre negli anni ’80, suonavo male la chitarra elettrica in un gruppo tecno-wave e altrettanto male (ma con più brio) il basso in un gruppo pop-rock (nel secondo scrivevo io le canzoni, in italiano). Poi ho chiuso, sono rimasto solo con la mia chitarra acustica, e nel 2000 (a 27 anni) ho scritto la prima canzone che mi è sembrata vera, fatta, completa (non è nel disco). Mi sono fatto i miei cd da solo, sono piaciuti a un po’ di gente ed eccomi qua.
Che rapporto hai con gli strumenti musicali? li usi e basta o sono qualcosa di più che semplici strumenti musicali?
Sono in simbiosi con la mia chitarra acustica (una Marina – credo fosse una marca coreana, comunque non esiste più). Per il resto (altre chitarre, bassi), sono solo strumenti musicali. Uso quel che mi serve.
Quali sono gli strumenti che usi normalmente e quali hai usato nel disco?
La Marina, per l’appunto – e qualsiasi basso mi capiti sotto mano, temo. Nel prossimo vorrei infilarci un banjo – suonato più o meno alla Sufjan Stevens – ma sono ancora in alto mare.
Ho l’impressione che sulla chitarra acustica adoperi una scalatura piuttosto leggera .10 mi sembra, hai mai provato con scalature più pesanti?
Dunque, all’inizio suonavo con corde più dure, poi ho provato a cambiare e mi sono trovato bene, nel senso che le corde di quello spessore mi aiutano a entrare ancora più in simbiosi con la chitarra. È come se eliminassero quasi del tutto l’attrito (una specie di Epo musicale).
Trovo che sia un vero peccato che ti trovi bene cone le mute leggere perchè sono convinto che con una muta 0.12 non avresti quasi bisogno di altri strumenti, a parte un basso e qualche percussione…
Una muta 0.12, la proverò senz’altro.
I progetti artistici a breve e lungo termine?
Nuovo disco il prossimo anno – sto scrivendo e cercando di capire come farlo. L’obiettivo, al di là della scrittura (che non si può controllare, ma solo selezionare a posteriori) è quello di fare un disco più raccolto, sia nel senso di meno ‘epico’, sia nel senso di un novero limitato di suoni (un suono di acustica, uno di chitarra elettrica pulita e uno di chitarra elettrica distorta, una voce senza riverbero e una con riverbero (sempre lo stesso), un piano, un organo, ecc.). Soprattutto, sto cercando di immaginarmi dei suoni di batteria, o delle percussioni, fatti senza batteria e senza percussioni. Che so – una cassa fatta con una cartellina di plastica vuota, charleston fatto con le chiavi, ecc. Tutto questo non per scelta ideologica o per dare l’idea della ‘sperimentazione’ (la sola parola mi fa venire la schiuma alla bocca) ma perché credo possa funzionare con quel che sto scrivendo.
Quanto al lungo termine, qualcuno ha detto (Keynes? Mah, è una di quelle frasi che girano) che sul lungo periodo siamo tutti morti.
Vorrei farti un’ultima domanda che è la variazione della classica domanda, insopportabile, che tutti fanno agli autori: “come nascono le tue canzoni?”. Le risposte sono la prova che gli autori hanno molta pazienza. La mia vuole essere un po’ meno banale, ma probabilmente è altrettanto insopportabile: cosa ti spinge a scrivere una canzone?
Questa domanda, non è affatto insopportabile – è inevitabile, e centrale. Parto per via negativa: le mie canzoni (tutte le cose che scrivo) non nascono perché voglio fare l’autore/il musicista/lo scrittore. E nemmeno perché voglio far vedere quanto sono bravo. Sembra banale dirlo, ma c’è un sacco di gente che scrive così. Secondo me, nel momento in cui c’entra l’ego di chi scrive, la canzone (il racconto/romanzo ecc.) è finita. Non arriva a nessuno.
Quindi qual è il motivo? Il solito. Creare una mappa 1:1 del mondo. Descrivere una persona, un avvenimento, un dialogo, una sensazione, una luce, una muffa sul muro. Immortalare tutte le cose mortali. Uscire da noi stessi. Immagino sia una sorta di prefigurazione della morte che ce la rende (nell’immaginazione) più leggera. Oggi ho letto una poesia di Giovanni Giudici, che lo spiega da Dio (‘La vita in versi’, si chiama):
Metti in versi la vita, trascrivi
fedelmente, senza tacere
particolare alcuno, l’evidenza dei vivi.
Ma non dimenticare che vedere non è
sapere, né potere, bensì ridicolo
un altro voler essere che te.
Una volta che si arriva a scrivere per tentare questa cosa che non si riesce mai davvero a fare, scrivere diventa una droga.
Grazie di tutte queste domande, ma non mi hai detto che canzoni hai scritto
Ah, non credo di essere pronto per essere a mia volta intervistato. Grazie a te per la disponibilità, Massimiliano.