Marta
L’epoca d’oro del progressive, grossomodo i primi due terzi degli anni settanta, fu anche l’epoca d’oro del 33 giri che improvvisamente si ritrovò a essere considerato opera d’arte come oggetto in sé e non soltanto per il contenuto. L’artwork, oggi si chiama così, acquisì la medesima importanza della musica spingendo creativi, pittori e fotografi a farsi coinvolgere nel particolare processo che portava alla realizzazione di un disco e a me questa cosa manca davvero tanto. Mi manca lo studiare una copertina in cerca di messaggi nascosti, l’individuare il collegamento con le composizioni all’interno, mi manca anche l’investigare il marchio della casa discografica sperando di trovare perfino lì significati misteriosi ben celati a occhi meno esperti dei miei. Negli anni ’70 quando acquistavi un disco ti portavi a casa un vaso di Pandora, uno scrigno capace di rivelarti mille verità differenti e completamente false, uno scrigno da esaminare, toccare, guardare, annusare, leccare, manipolare. Comprare un 33 giri era una esperienza psichedelica, un rito di iniziazione continuamente ripetibile. E insieme c’era anche la musica che il più delle volte non era niente male.
Ora il vinile sta tornando di moda e leggo continuamente articoli che spiegano le ragioni di questo fenomeno. Questi articoli parlano sempre più spesso della grande e riscoperta qualità degli LP contrapponendola a quella rivelatasi inaspettatamente bassa del moderno digitale nelle sue varie forme e io ci credo, davvero. Però poi mi ricordo che amavo molto i Long Playing per tutte le ragioni che ho spiegato prima ma che quando appoggiavo la puntina sul disco cominciavo a innervosirmi per il rumore stesso della puntina, per la polvere, per la qualità della stereofonia e per tante altre cose. Come molti altri appassionati compravo apparecchiature Hi-Fi sempre più sofisticate che minimizzavano i problemi che però non si risolvevano mai, perchè il vero problema era proprio il vinile, cioè un pezzo di plastica attirapolvere, sul quale sfregava una puntina. Perchè dovrei voler tornare indietro a tutto questo? perchè dovrei voler riprendere a pulire continuamente la superficie del disco con liquidi miracolosi e inutili, a smadonnare per le righine, per il bilanciamento della testina che se è troppo in là salta e se è troppo in qua gratta? Forse perchè non capisco un tubo e chi scrive della rinascita del vinile è non solo molto più informato di me ma anche parecchio più intelligente?
E poi penso anche che, almeno negli ultimi venti anni, tutto quel che è stato inciso è stato fatto in digitale, al di là del supporto sul quale è stato poi pubblicato e che anche i vecchi master su nastro sono stati digitalizzati per poterli salvare e che, a parte i miei 33 giri che sono vecchi come il cucco, praticamente tutta la musica che c’è in vendita è digitale, anche quella che viene offerta sul magico supporto vinilico e, scioccamente, mi domando: di che cosa accidenti stiamo parlando? ma non faremmo meglio a occuparci della fame nel mondo, della povertà, della disoccupazione e a lasciar perdere le sciocchezze?
Comunque sia questa mattina, mentre giravo in bicicletta, pensavo a queste cose qui e in particolare pensavo alla musica progressive cioè a quella musica che si ascoltava quando io ero ragazzino. Vi ho già detto che, allora, gli artisti progressive erano considerati quelli che cercavano, con il proprio strumento, di portare avanti un discorso di ricerca, e si contavano sulle dita di una mano, mentre gli altri erano semplicemente rock’n’roll, che si chiamassero Rolling Stones o Genesis, King Krimson o Black Sabbath. Poi l’iperspecializzazione dei nostri tempi, o forse l’estrema insicurezza che ci affligge, ci ha portati a voler creare caselle in cui infilare tutto quel che ci circonda per meglio definirlo, così rimaniamo impassibili nel sentir battezzare il modulo di gioco di una squadra di calcio 3-1-3-1-1-1 e chiamiamo quello che per i contemporanei era solo rock con un termine che se da una parte identifica, sì, un preciso modo di interpretare la musica, dall’altra è un clamoroso falso storico e mette insieme chi quel termine se lo era faticosamente guadagnato ad altri che semplicemente tentavano di suonare al meglio.
La verità, cari i miei 7 lettori, è che nei primi due terzi degli anni settanta i musicisti si accorsero che non erano affatto vincolati a un numero preciso di battute, o a una determinata alternanza di strofe e ritornelli, ma che potevano rompere le barriere e spingersi ai limiti delle proprie capacità. Alcuni avevano talenti strumentali immensi, altri eccellevano nel songwriting, altri nell’orchestrazione e nell’arrangiamento. Quello che si faceva era andare avanti e vedere che cosa succedeva, lo facevano tutti, pensate che lo facevo anche io mentre cercavo tra mille difficoltà di trascrivermi certi brani del Perigeo. Lo facevano i Pink Floyd, i Led Zeppelin, gli Who, Santana e anche la gran parte dei musicisti italiani, quelli bravi e quello no. L’epoca obbligava ad avere un atteggiamento e un modo di pensare avventuroso quindi, semplicemente, si era così. Molti cantautori delle nostre parti scrissero le cose migliori negli anni ’70 solo perchè artisticamente si sentivano liberi di andare verso l’orizzonte, proprio come Antonello Venditti che, pur avendo firmato cose bellissime anche nei decenni successivi, negli anni ’70 con Quando verrà Natale creò, a mio parere, un capolavoro assoluto e inimitabile. Vi ho già parlato in un altro articolo di questo disco e non intendo ripetermi troppo, vi basti sapere che quando l’ascoltai per la prima volta intuii che si trattava di qualcosa mai realizzato prima in Italia, non sapevo spiegare bene questa mia sensazione e tantomeno so spiegarla adesso, ma in qualche modo capii che il cantautore romano aveva preso il volo verso una direzione artistica che poteva portarlo ovunque, in territori vergini e inesplorati, in dimensioni musicali alternative, in un luminoso futuro di gloria e magnifiche sorprese. Ogni canzone era un pugno nello stomaco del passato, e la ragione non risiedeva nel pentagramma o in schemi superati e resi obsoleti, non solo, la ragione stava nel modo di proporsi, nel volere essere oltre le aspettative, oltre un certo conformismo ben mascherato che tutti ci teneva al guinzaglio. L’epicità della voce di Antonello Venditti vestiva ogni composizione di intima drammaticità e ascoltare quel 33 giri, credetemi, era una esperienza, un tuffo ubriacante nell’arte che si rinnovava a ogni ascolto. Per me è così ancora adesso ma non pretendo che lo sia anche per voi, cari i miei 7 lettori, voi respirate un’aria diversa da quella che respiravo io e Quando verrà Natale, probabilmente vi sembrerà solo un bel disco, come Rubber Soul, The Dark side of the Moon e Who’s Next. Vi ho già detto altrove che Campo de’ fiori è la canzone dell’album che preferisco ma Marta era quella che la gente più amava, quella che più veniva suonata quando nella compagnia appariva una chitarra e la ragione non la so, probabilmente Quando verrà Natale parlava più lingue per farsi capire da tutti e una di queste, Marta, aveva qualcosa capace di intrufolarsi nell’animo dei ragazzi, di colpirli senza che si potesse alzare alcuna di difesa contro la sua forza. E’ davvero una bellissima canzone, sì, anche se io, lo sapete, preferisco l’altra.