Manhattan Folk Story
Mi è sempre piaciuto armeggiare con gli strumenti, da ragazzo, in epoca “progressive” me ne andavo in giro con un flauto traverso infilato nella cintura, pronto a zufolarci dentro a ogni occasione che si profilava all’orizzonte, strimpellavo anche il banjo, suonavo abbastanza bene il mandolino e me la cavavo con l’armonica. Il massimo lo raggiunsi con la chitarra acustica, però, strumento che utilizzavo prevalentemente in modo ritmico con abbellimenti vari, alla Neil Young per capirci, accompagnandomi spesso proprio con l’armonica. Sfoggiavo anche una voce piuttosto buona e ho da qualche parte diversi nastri, con mie performance dell’epoca abbastanza apprezzabili, che lo attestano senza timor d’essere smentiti, il fatto che adesso non sia in grado di cavare un ragno dal buco è dovuto ai quasi vent’anni di inattività musicale durante i quali mi sono dedicato, con buone soddisfazioni, ad altro.
Con il reggiarmonica al collo e con la chitarra tra le braccia, a Roma intorno ai vent’anni, incontrai uno che organizzava concerti e serate. Io ho sempre avuto una difficoltà estrema e imbarazzante a ricordare gli accordi delle canzoni altrui, problema che stranamente non si è mai presentato con quelle scritte da me (allora, ahimè, scrivevo canzoni) quindi ai tempi quando non avevo uno spartito o il quadernetto con testi e accordi, suonavo roba mia e fu proprio in veste di cantautore che l’impresario (lo chiameremo così perchè purtroppo non ricordo più il nome, Pietro? Giuseppe? Asdrubale?) mi conobbe.
Quindi a Roma, intorno ai vent’anni, quel giorno cantavo un brano che si intitolava Pulcinella, probabilmente biografico anche se non ci giurerei, che cominciava così:
Mani inquiete e occhi attenti
oltre il vuoto
e tu che fai?
parole vane e tanti sogni
come braccia
tenderai…
inserivo tra le strofe alcuni passaggi jazzati a effetto e il tutto durava quasi dieci minuti, mi rendevo tranquillamente conto da solo che era un agonia, ma come vi ho detto ricordavo soltanto le mie canzoni, questa era una delle ultime scritte e mi usciva fuori davvero bene. L’impresario me la fece cantare per un ora di seguito e dopo mi chiese se ne avevo scritte altre. Se ne avevo scritte altre? erano almeno cinque anni che scrivevo una canzone al giorno e nell’ora successiva mi produssi in un mini-concerto per lui e per tutti quelli che sostavano sui gradini di S. Maria Maggiore (ma forse eravamo dalle parti di Campo de’ Fiori, chi si ricorda più?) che riscosse un discreto successo, perlomeno nessuno si lamentò. L’impresario faceva anche il talent scout per un famoso locale romano, di conseguenza fece ascoltare al proprietario la cassettina che avevamo registrato e dopo qualche giorno si rifece vivo con una clamorosa offerta: aveva ottenuto per me una serata alla settimana sul prestigioso palcoscenico mentre nelle altre avrei dovuto fare il tappabuchi in caso di defezioni altrui con la possibilità, a volte, di introdurre con qualche mia composizione i musicisti più famosi che si sarebbero esibiti nella sala. Il tutto senza una data di scadenza e dopo un paio di concerti di prova, naturalmente. Mi veniva offerto il ruolo di Artista della Casa e, credetemi, era un ruolo importante. A tutto ciò si aggiungeva, come ciliegina sulla torta, un discografico, da una altra parte della città, in attesa della disponibilità per un appuntamento durante il quale discutere di cose discografiche. L’impresario era letteralmente partito per la tangente, aveva deciso che sarebbe stato il mio manager e che mi avrebbe presentato come una via di mezzo tra Branduardi e Bennato, che avremmo dovuto far leva sull’evidente malinconia presente in gran parte delle mie canzoni e sul mio aspetto abbastanza gradevole per catturare il pubblico femminile e poi puntare verso la gloria eterna e imperitura così come i razzi americani puntavano dritti verso la luna o, alternativamente, verso inermi città giapponesi.
Mentre lui mi esponeva i suoi grandiosi progetti io mi rendevo conto che fare il musicista di professione non mi interessava per niente, che un conto era suonare con gli amici dietro a una birra, un altro era legare colazione, pranzo e cena alla chitarra e che quest’ultima cosa proprio non faceva per me, forse perchè non ero sicuro del mio talento, forse perchè davvero non me ne fregava un tubo. Tu sei matto, gli dissi, e da lì a poco me ne tornai a Torino, la città nella quale vivo ancora oggi e che oltre a non offrire nulla ci si trova anche esattamente nel bel mezzo.
A questo punto vi starete certamente interrogando sulle reali intenzioni di questo articolo. State pure tranquilli, cari i miei 7 lettori, non sto cercando di propinarvi la storia della mia vita, quel che avete appena letto mi è sgorgato naturalmente dai ricordi perchè nel suo libro Dave Van Ronk racconta un sacco di storie simili e mi sono immaginato, per un attimo, che vi fosse contenuta anche la mia, e poi ricordo anche che quando decisi di imparare a suonare la chitarra in fingerpicking (con i risultati disastrosi che potete immaginare) gli unici arrangiamenti che mi piacevano davvero erano quelli suoi.
Manhattan Folk Story è l’autobiografia di quello straordinario musicista che fu Dave Van Ronk, scritta con l’aiuto di Elijah Wald e da questi terminata dopo la prematura scomparsa del chitarrista e amico. Il libro ci trasporta in un tempo ormai ammantato di leggenda e in un luogo il cui nome ormai ha raggiunto la medesima potenza mitologica della Avalon di Re Artù: la New York tra gli anni ’50 e ’60, nel Greenwich Village, prima, durante e dopo il Folk Revival che in qualche modo cambiò il corso mondiale della musica anche perchè produsse un fenomeno come Bob Dylan. Dave racconta tutto quello che ricorda di tutti quelli che ricorda, e i nomi sono centinaia, con aneddoti, rettifiche a quanto è stato ufficialmente tramandato, storielle, umorismo e punti di vista personali incredibilmente interessanti. Manhattan Folk Story è un libro molto piacevole da leggere, per questo lo consiglio davvero a tutti, ma è anche un prezioso documento che narra di un’altra epoca, che descrive le strade, i locali e il tipo di gente che frequentava entrambi, un documento che rivela gli ambienti politici della Big Apple della metà del XX secolo, i movimenti dell’ultrasinistra con il suo modo di vedere la musica e di come la condizionò, l’innocenza incapace di comprendere il capitale dietro le case discografiche e i primi manager professionisti.
Non v’è una parola di troppo in questo libro o frasi che possono in qualche modo suscitare antipatia, proprio come ci si aspetta da Dave Van Ronk, meraviglioso bluesman/folksinger dalla voce caldissima, dalla tecnica ammaliante, dall’ironia/autoironia fulminante, dalla risata contagiosa e dall’umanità infinita. Leggere la sua autobiografia serve a farlo tornare ancora un po’ tra di noi ed è una bella consolazione visto che altri come lui difficilmente nasceranno e, comunque, all’orizzonte non se ne vedono.