Living in the Material World
Dovete davvero scusarmi, cari i miei 7 (e ormai affezionati) lettori, ma sono davvero incazzato. Ormai sapete che sono svanito e che divago piuttosto volentieri, anche se non sempre coscientemente, ma qui mi tocca divagare scientificamente e questo è troppo anche per me, cercate di seguirmi e, magari sforzandovi un po’, di capirmi.
Ci sono un paio di Blogger da Quattro Soldi. Quello che fanno non è davvero brutto, imitano lo stile esteriore, qualche tòpos, niente di grave per chi come me neppure si rendeva conto di usare i tòpos, e soprattutto costoro non hanno la percezione del proprio errare, sono al di là del bene e del male. A volte leggo i loro blog, e sono così pessimi e inconsapevolmente naif che in fin dei conti mi piacciono, sono accidentalmente divertenti nonostante gli autori e i contenuti. Ma ditemi, non è a questo che serve Internet? dare a tutti noi la possibilità di esprimerci, di inventarci una platea, un pubblico. Quando li ho trovati, questi Blogger da Quattro Soldi, in un modo o nell’altro, mi sono anche inorgoglito: “Ehi” mi son detto “quarda un po’ che succede! ci sono degli sfigati talmente sfigati da prendermi a modello. Ma che gli dice il cervello? non si accorgono che io son molto peggio di loro?”
Poi ci sono gli Pseudogiornalisti del Cazzo. Quelli che cominciano la loro fulgida carriera dalle testate online, dai blog evoluti e che sognano di finire in TV o sulla carta stampata a imitare lo stile di Pseudogiornalisti del Cazzo più incapaci di loro. Sono bastardi di talento e non si fanno alcuno scrupolo di copiare interi articoli, a volte senza neppure preoccuparsi di “rimestarli un po’”. Indossano le tue idee e, per compiere quello che credono sia il loro destino, ti ruberebbero anche l’anima, sterminerebbero la propria famiglia. Si tratta solo di volgarissimi parassiti, s’intende, e poichè non hanno alcuna vera capacità, sono completamenti disinteressati alle eventuali finezze intrinseche di ciò che copiano, neppure capiscono l’utilità dei tòpos e questo li rende meno immersi nell’arte degli sfigati di prima. Alcuni di loro, i più feroci, finiranno per lavorare nei media facendo danni irreparabili alla già misera informazione italiana, e per questo piango il nostro povero paese, gli altri continueranno a scopiazzare sul web. Mi fanno incazzare non tanto per quel che fanno ma perchè a volte si prendono complimenti che dovrebbero essere diretti a me e a volte vengono invitati, in vece mia, a eccellenti cene durante le quali, finalmente, possono esibirsi in quello che san fare meglio: leccare il culo ai potenti e abbuffarsi come maiali.
I terzi sono i peggiori, mi piace chiamarli gli Artisti senza Talento: soltanto perchè hanno una buona conoscenza della lingua italiana e una discreta proprietà di linguaggio sono convinti di essere stati baciati da chissà quale dea che gli ha così fornito chissà quali doni ma, ahimè, non si rendono conto che per essere artisti sono necessarie molte altre qualità che loro proprio non posseggono. Costoro sono pericolosi perchè spesso si pongono come punto di riferimento per web surfer inconcludenti in cerca della luce e quello che hanno da restituire è solo il loro desolante nulla. Loro non copiano i contenuti, come gli Pseudogiornalisti del Cazzo, loro come i Blogger da Quattro Soldi copiano lo stile, però lo copiano bene e, poichè i loro mezzi “tecnici” sono avanzati, i risultati sono apparentemente buoni, addirittura sintatticamente e semanticamente superiori all’originale (e lasciatemelo dire, zozzoni di merda, non è che ci voglia molto). Quel che gli manca è, come abbiamo specificato qualche riga fa, il talento. Pensano di essere creativi ma sono ovvi, scontati e a volte ridicoli. Ciò che voglio dire a questi infelici è che è inutile leggere Joyce a casa e poi spiegarlo in giro se poi quando serve debbono ridursi a copiare Manodipietra, dovrebbero piuttosto copiare Joyce anche se è un po’ più complicato.
Capite dove voglio andare a parare, miei cari 7 lettori? fino a qualche tempo fa ogni qualvolta scrivevo un nuovo articolo mi domandavo “piacerà? sarà interessante? il mio italosco sarà comprensibile o dovrei farlo evolvere fino a un italiacano formale che quello, sì, un po’ lo parlano tutti?” Sulla qualità letteraria non avevo dubbio alcuno, so bene di essere un Blogger da Quattro Soldi anche io e per fugare ogni ombra di dubbio voglio sottolineare che qui sto a rivendicare esclusivamente l’originalità di ciò che scrivo, non certo la pregevolezza del linguaggio usato o l’abilità nella punteggiatura che dentro ci svolazza: conosco semianalfabeti che, indottrinati dai programmi televisivi pomeridiani, padroneggiano la parafrasi assai meglio di me, che a malapena distinguo i verbi dagli avverbi e non ho idea di cosa sia la parafrasi. Recentemente mi è capitato di buttar via delle recensioni appena terminate perchè avevo la certezza matematica che sarebbero state scopiazzate e non mi andava di fare il lavoro al posto di qualche Pseudogiornalista del Cazzo. In verità non è che mi importi molto di tutto questo, le sconclusionate riflessioni che state leggendo non sono in realtà dettate dalla paura di dare idee a un gruppo di poveracci, quanto dal non voler fertilizzare della mala erba che, lo sappiamo bene, se è chiamata mala erba deve pur essere per un qualche buon motivo.
Di questo film di Martin Scorsese debbo però assolutamente parlarvi e naturalmente cercherò di non fornire appigli ai dannati copioni, tentando di rendere il tutto talmente personale che alla prima scopiazzata voi possiate essere in grado di individuare i fraudolenti miserabili e sbugiardarli immediatamente. In guardia, bifolchi, le truppe del vecchio Manodipietra non vi lasceranno più scampo!
Il mio primo Beatle preferito fu George Harrison. Ero piccolo e lui era chiaramente il più giovane dei quattro, quindi la scelta fu obbligata. Quasi subito passai però a Ringo Starr perchè era il più simpatico, con quel naso e tutti gli anelli che si trascinava dietro. Paul McCartney venne per terzo, ero già grandicello, fu la prima scelta razionale e dovuta al fatto che Paul sembrava essere il più figo dei quattro, quello per cui impazzivano le ragazze e che cantava Hey Jude: sarebbe stato da stupidi non volere assomigliare a Paul McCartney. Infine arrivò John Lennon (e qui i copioni di cui sopra proprio non riusciranno a comprendere di cosa parlo) e la scoperta dell’irregolarità del genio, delle curve nel pensiero, dei moti sussultori dell’anima. L’arte era lì, non certo nella perfezione artigianale di Paul (su Paul ho di nuovo cambiato idea, in seguito, ma adesso stiamo parlando di un tempo remoto e delle scoperte di un ragazzino, non della verità assoluta). George Harrison ritornò dopo un po’, nel tempo in cui anche io cominciavo a interessarmi di religioni orientali e di musica differente e da allora non mi ha più lasciato, perfetta media tra il genio di John, la bravura di Paul e l’estro di Ringo, con la sua voglia di andare oltre e di non fermarsi mai all’ovvio o a quello che ci si sarebbe aspettato da lui.
Il DVD di Living in the Material World mi è capitato tra le mani proprio il giorno in cui si sarebbe giocata la finale dei campionati europei di calcio 2012 tra Spagna e Italia e se invece della nazionale ci fosse stata la mia squadra di club preferita e se lo sport fosse stato il Volley invece del calcio, io quella finale l’avrei vista, davvero, lo giuro. Purtroppo non è andata così e mi dispiace un po’ per quelli che, magari solo per un millisecondo, han creduto che una squadretta come l’Italia potesse sconfiggere uno squadrone come la Spagna. Se costoro davvero ci han sperato è segno che i media sono molto più potenti di quel che credevamo, potenti al punto da ingannare i nostri occhi e farci sembrar belle le scadenti trame che i giocatori azzurri andavano imbastendo contro le miserande formazioni che avevano affrontato prima della Spagna. Quelle partite le ho viste anch’io e sono inorridito davanti al gioco ignobile messo in campo dall’Italia, nonostante le vittorie, e se qualcuno al termine di quegli incontri ha sentito il sacro dovere di scendere in piazza per festeggiare e poi davanti allo spaventoso danno che ci stan facendo questi spregevoli governi che abbiamo non ha mai avuto altra reazione che un’apatica indolenza, eh be’, è segno che il male ha vinto e che abbiamo impacchettato e consegnato il nostro cervello ai media. Se Karl Marx dovesse redigere ora il Capitale non scriverebbe più che la religione è l’oppio dei popoli, scriverebbe che lo è il calcio. A me comunque piace il Volley, piace George Harrison e mi sono divertito molto a guardarmi Living in the Material World mentre chi ha pensato che assistere alla trasmissione della finale dei campionati europei fosse la cosa migliore da fare si è divertito assai meno. Ben gli sta’.
Il film è lungo, pieno di testimonianze e piuttosto delicato. La delicatezza sta nell’aver ricostruito la vita di George usando prevalentemente le immagini e creando infine un film privo di giudizi, di proclami, di inni, di esagerazioni, e questo tenendo chiaramente conto che non stiamo parlando di un qualche divetto meteoritico dei nostri giorni ma di uno dei Beatles! per la precisione di quello che, oltre a essere un magnifico musicista, fungeva da collante/catalizzatore per i due geni del gruppo e che permetteva alla loro rivalità di trasformarsi in sana e proficua competizione. Pochi hanno valutato correttamente la forza della figura di George all’interno dei Beatles, e quindi pochi hanno capito quello che era veramente, forse per la sua riservatezza o forse per il suo non volersi porre come guida per altri, anche se in fondo lo era. Tutti abbiamo ben presente la foto dei Beatles a Bangor, dal Maharishi, con il santone al centro e la gran massa di artisti, ospiti, ai lati o davanti, ebbene il film di Martin Scorsese fa notare che il posto centrale sarebbe dovuto toccare di diritto a George, perchè fu lui quello che trascinò i suoi amici e l’intera comunità di musicisti anglo/americani, prima a Bangor, poi in India e poi verso le discipline orientali, come forse fu proprio lui a dare un grosso impulso, anche solo per merito della sua famosa visita a Haight-Hasbury, all’intero movimento hippy. E questo film ci ricorda anche che George Harrison, in ogni momento della sua vita, non ha mai fatto nulla che non fosse, in qualche modo, intimamente spirituale. Chissà, forse è proprio questo che me lo fa amare e non (solo) le canzoni o i vestiti o la fantastica avventura dei Traveling Wilburys quando fu, ancora una volta, il catalizzatore di quel meraviglioso supergruppo che annoverava oltre a lui, il più grande artista contemporaneo, Bob Dylan, una leggenda vivente come Roy Orbison e poi Jeff Lynne, Tom Petty e Jim Keltner. Un giorno vi parlerò dei Traveling Wilburys, e della originale chitarra che la Gretsch creò con il loro nome. Spero che comincerete a prepararvi per tempo.
Io credo che gli strumenti servono per far musica, non penso che siano simboli, scelte di vita, linee di pensiero o altre bizzarre o sconclusionate interpretazioni filosofiche. E’ proprio per questo che ne ho tanti, di vario tipo, e che li suono tutti (male purtroppo). La musica è ciò che conta, non quel che serve a produrla, pare un concetto assai semplice ma in fondo non lo è affatto, è sempre il solito discorso del dito che indica la luna e dello stolto che guarda il dito. Io comunque non sono un fan dell’ukulele, per un annetto l’ho eletto a mio strumento principale perchè è come la chitarra, ma più facile da suonare e da trasportare e mi va benissimo per indicare la luna. Senza George Harrison probabilmente mi sarei perso questa esperienza rimanendo con molte più frustrazioni musicali di quelle che ho adesso. George Harrison era uno dei più grandi collezionisti del mondo di ukulele e, oltre a usarlo spesso e volentieri nei suoi dischi e a portarsene sempre appresso alcune decine, si è costantemente adoperato in quella che viene comunemente definita evangelizzazione, spingendo cioè ogni collega con il quale entrava in contatto a valutare la possibilità di imparare a suonarlo e poi aiutandolo a comprendere che aveva davanti uno strumento completo e adatto a eseguire qualunque genere di musica. Io penso che l’attuale boom dell’ukulele abbia come padre proprio George Harrison e questa è una cosa che mi piace parecchio, perchè avete capito, ormai, che anche George Harrison mi piace parecchio e che, di tanto in tanto, continuo a suonare l’ukulele. Nel DVD troverete divertenti testimonianze da parte di Jeff Lynne e Tom Petty sul suo rapporto con questo strumento e se a differenza di me siete uke-maniaci allora questi commenti li gradirete molto.
Questo film ha avuto molte critiche da parte degli Pseudogiornalisti del Cazzo e degli Artisti Senza Talento e anche da quelli che son pagati per scrivere, i cosiddetti Veri Giornalisti quelli che, lo sapete, se c’è da far marchette non son secondi a nessuno e che come addebitano alla testata ristoranti e discoteche loro non riesce ad addebitarli nessuno. Io son più semplice: amo Martin Scorsese, sono convinto di non essere in grado di giudicare il suo lavoro, di non avere la dignità di farlo, ed eseguo strepitose capriole all’indietro perchè spesso riesco a capirlo, ringrazio quindi Dio per aver creato un regista così bravo da essere capace di regalarci, oltre a svariati capolavori del cinema, anche film musicali sublimi come No Direction Home e soprattutto The Last Waltz ,quindi accetto Living in the Material World come un bellissimo dono che parla di un altro artista che amo molto, un uomo che, secondo il racconto di sua moglie Olivia, nel momento della sua morte si è messo a brillare di una luce straordinaria che ha illuminato tutta la stanza nella quale giaceva. Io non ci credo. Credo invece che lui brillasse di una luce straordinaria già da molti anni prima della sua morte: stiamo parlando di George Harrison, uno dei Beatles, cazzo, ce lo siamo scordato?