La Serie dei Beatles – n° 11: For Sale
Riassunto delle puntate precedenti: la persona che scrive è miracolosamente ritornata indietro nel tempo, nel 1973 o forse 1974, e più precisamente al giorno in cui, pur conoscendo già tramite attente letture la storia di ogni canzone, ascoltò per la prima volta, interamente, l’album dei Beatles che dà il titolo a questo articolo. Ecco la fedele cronaca di quel che fece e pensò in quelle magiche e indimenticabili ore.
(Attenzione! Si tratta di un gioco, non di una cosa seria. Poichè la lingua italiana a volte risulta oscura e misteriosa e non sempre chi ce l’ha tra i piedi riesce a padroneggiarla come si deve e poichè non è detto che l’introduzione di cui sopra sia stata ben compresa dai più, è bene sottolineare che quel che segue non è una recensione e non necessariamente rispecchia le attuali idee di chi scrive, si tratta semplicemente del tentativo di ricordare che cosa l’autore pensò e provò, nella prima metà degli anni ’70, nell’ascoltare per la prima volta l’opera oggetto dell’articolo, un autore appena adolescente e non certo critico musicale. Non che adesso lo sia diventato, critico musicale. Puoi anche leggere una più ampia introduzione qui: www.stonehand.it/wordpress/la-serie-dei-beatles-n-0/ )
Questo è uno dei miei dischi preferiti dei Beatles. Non fa nulla se non ne conosco (ancora) le canzoni, è sufficiente uno sguardo alla copertina per farlo salire lassù, ai vertici della mia personalissima classifica di gradimento. Beatles For Sale è il titolo, Beatles in vendita, ma è abbastanza chiaro che loro quattro sono al di là della vetrina e guardano perplessi quello che c’è al di qua. Cioè noi. La grafica del retro è elegantemente sobria e tutto fa pensare che i nostri quattro eroi abbiano qui compiuto un qualche misterioso salto di qualità al punto da ritenere necessaria una presentazione assai più seria del solito, una scorsa ai titoli presenti nel Long Playing ci fa subito capire, non fossero sufficienti le capigliature esibite nelle fotografie, che la beatlemania è sempre bella viva e in agguato, rinforzata in questo caso da alcuni bei classici del rock’n’roll. La strada battuta è dunque, probabilmente, la solita e a noi spudorati fan dei Fab Four va benissimo così ma, nonostante queste nostre istintive certezze, è meglio non saltare subito alle conclusioni e lasciarle, com’è logico, per la fine visto che in mezzo ci debbono stare le canzoni. Debbo anticiparvi che la critica, adesso nel 1973, forse ’74, non tiene in grandissima considerazione questo album ma, come ben sapete, da queste parti tendiamo a resistere tenacemente ai condizionamenti e della critica ce ne infischiamo bellamente, quindi i giudizi che vi apprestate a leggere saranno come sempre obbiettivi e, come sempre, forse non particolarmente attendibili…
LATO A
No Reply, spara subito un John Lennon in stato di grazia, convinto nel canto e forse ancora di più nella scrittura. In una struttura abbastanza incalzante viene incastrata una melodia accattivante arricchita di coretti ubriacanti e tutto questo è forse il segreto rivelato del successo dei Beatles. Niente di così complicato, vero?
I’m a Loser vede nuovamente John in primo piano a solleticare la sciocca curiosità dei soliti, ancorchè ben pagati, critici da quattro soldi: perchè mai un giovane milionario scrive una canzone nella quale si autodefinisce “un perdente”? se questi critici rock conoscessero un po’ meglio i temi e l’etica rock si porrebbero domande di gran lunga più intelligenti. I’m a Loser, come canzone, assomiglia un po’ alla precedente, della quale non possiede però il brioso mordente. Andiamo oltre.
Baby’s In Black è cantata da John e Paul insieme e non è chiaro chi dei due sia l’autore principale, probabilmente è uno dei pochi brani scritti realmente in coppia. Come per I’m a Loser, la sensazione è che potessero far molto, ma molto, meglio. Comunque ce la teniamo così com’è, tanto non si può mica più cambiare…
Rock And Roll Music, di Chuck Berry, nelle mani dei quattro ragazzi di Liverpool si trasforma in dinamite pura, soprattutto a causa dell’esplosiva performance vocale di John che quando canta, lo sapete meglio di me, non ce n’è proprio per nessuno. Per il resto il brano non si discosta molto dall’originale.
I’ll Follow The Sun, pare fosse considerato uno scarto dalla band mentre per me è una bellissima prova di Paul, tutta in acustico. Il livello è alto, a parer mio, in quanto qui ritroviamo tutto il migliore McCartney in veste melodica..
Mr. Moonlight è una canzone di Roy Lee Johnson (autore che non conosco) interpretata qui da Lennon e per quel che posso capire io, non molto bene. Secondo me è il punto più basso dell’intero album.
Kansas City è un classicissimo di Leiber-Stoller mentre Hey-Hey-Hey-Hey! è stata scritta da Richard Penniman alias Little Richard. Eccole fuse insieme in una convicentissima prova di Paul, davvero scatenato e incontenibile. Il migliore McCartney in veste rock…
LATO B
Eight Days A Week pare sia una composizione di Paul anche se stranamente è cantata principalmente da John. Non mi piace molto, mi sembra davvero un semplice riempitivo.
Words Of Love. Toglietevi il cappello, ragazzi, questo è Buddy Holly riproposto magistralmente dalla chitarra di George, che sovrasta tutto, e dalle voci di John e Paul che affrontano con il massimo rispetto l’opera dello straordinario musicista texano. Da ascoltare a ripetizione nell’immediato e poi nel corso degli anni.
Honey Don’t è di Carl Perkins ma qui la canta Ringo. Sarebbe stato meglio se avesse continuato a cantarla Carl Perkins.
Anche Every Little Thing, come Eight Days A Week, pare sia stata scritta da Paul, e come Eight Days A Week è cantata da John. Forse è la prova più evidente del predominio di Lennon durante la beatlemania oppure, data la pochezza del brano, quella della furbizia di Paul, capace di prendere le distanze dalle sue composizioni peggiori affibbiandole ad altri.
I Don’t Want To Spoil The Party è un riempitivo talmente palese che forse è stato scritto apposta per rivestire questo ruolo e forse, contro la volontà stessa degli autori (John? Paul?) risulta accidentalmente bello in tutto, melodia, ritmo, arrangiamento, interpretazione. L’aggettivo non mi piace molto, ma usarlo qui forse può rendere l’idea: carina è il modo migliore per definire questa canzone.
What You’re Doing si avvale di un bel riff, suonato da George, non sufficientemente valorizzato. Questa volta la canzone Paul se la canta lui, ma non è mica un granchè, proprio come le due che ha rifilato a John.
Everybody’s Trying To Be My Baby di Carl Perkins vede una delle peggiori interpretazioni di George che io abbia mai ascoltato, forse perchè lui i rock’n’roll li canta alla maniera di John senza possederne la voce.
Per la prima volta nella mia vita sono quasi costretto a dar ragione ai critici: a dispetto della grande grafica della confezione, l’album non è neanche lontanamente uno dei miei preferiti e in generale non è un lavoro indimenticabile. Probabilmente è stato registrato di malavoglia e soltanto per accontentare i discografici. Tuttavia la presenza di Words Of Love, da sola, giustifica l’acquisto dell’LP, ll resto è omaggio. Quindi a modo suo un grande disco. O no?