Il mio Torino Jazz Festival
E finalmente, su queste pagine, va in onda l’inaspettato, l’inimmaginabile, il riprorevole, finanche: il vostro amichevole Stonehand di quartiere (e chi non capisce la citazione dotta vada subito a segnarsi con l’acqua santa) vi parlerà di Jazz!!
“Ma caro Manodipietra (o Manedepietra come direbbero a Roma) ma che te tu te stai a hombinare? (ci siamo spostati nell’Etruria centro-ponentina) prima ci dici che ti piace o’blues, poi il country, poi il folk americano, poi la musica tradizionale italiana, poi il classico rock’n’roll, poi il Rock, poi il Reggae, poi Guccini, poi Sergio Caputo, poi Stefano Rosso, poi Bennato (e altro cantautorame, perfino americo/canadese), poi il Punk e adesso te ne vieni fuori con il Jazz? non ti sembra di mettere un po’ troppa carne al fuoco? ti son venute manie di grandezza minime? ti sei messo a dare i numeri, peraltro completamente sbagliati? ti rendi conto di essere tutto chiacchiere e distintivo? (e con questo la finisco con le citazioni altamente culturali, anche perchè ne ho poche e quest’ultima l’ho usata già parecchie volte)“.
Che posso dirvi, amici miei? a me, prima che i generi o i musicisti, piace la musica. Son mica uno di quei tipi che si attaccano a una banderuola e ne fanno una ragione di vita! a me le banderuole belle son tutte gradite, o quasi, quelle che non mi piacciono le conoscete e se non le conoscete vi basta cercarle nell’elenco che avete testè fatto sopra. Non le troverete. Epperciò non mi sentirete mai dire una frase come “La mia musica è lo Swing”, dirò invece “Amo lo Swing” oppure “Lo Swing è una delle musiche che preferisco”, d’altra parte non mi vedrete mai neppure, munito di bicchiere o di bottiglietta da 33cl di birra, che m’aggiro con aria assente per i concerti, tirando lievissimi sorsi manco stessi bevendo whisky invecchiato 25 anni. Quelle cose lì, quelle dosi, io le finisco in un sorso o al massimo, se mi sento poco bene, entro due passi dal bancone e la passerella birrata, tanto di moda oggigiorno, per me sarebbe impossibile da portare a termine, a meno di non riempire del liquido biondo un pintone da due litri o una damigianetta da cinque. Anche un grosso fiasco andrebbe bene. Certo non sarebbe figo come ciondolare distrattamente con la bottiglietta semipiena tenuta perpendicolarmente, in maniera perfetta, dal braccio posizionato esattamente a 90 gradi, ma consentirebbe anche al sottoscritto di poter finalmente frequentare i concerti come è di moda oggi: birromunito, guardando qua e là con aria annoiata, snobbando la musica e di tanto in tanto borbottando nel telefonino “dove sei? io son qua”.
Però devo confessare che stavolta, birichini, ci avete preso in pieno: io di Jazz non ci capisco proprio una cippa, anche se è pur vero che il primo brano “organico” per chitarra che imparai a suonare fu “Via Beato Angelico” del Perigeo in una versione live straordinaria e con serratissime variazioni sul tema. Non la suono più da trent’anni ma potrei ancora rifarla e improvvisarci sopra per ore, tanto mi piaceva. Non era Jazz puro, d’accordo, ma ci andava parecchio vicino. E comunque il Jazz è figlio del Blues, che conosco abbastanza quindi sono jazzisticamente analfabeta, sì, ma con alcuni accecanti sprazzi di luce. E mi piace lo Swing, Luis Armstrong e il Jazz di New Orleans. Sommate a tutto ciò il fatto che, nel bene e (soprattutto) nel male, sono anch’io un musicante e vi accorgerete che nel Torino Jazz Festival non è che ci sto così male, ci sto peggio dei veri appassionati, certamente, ma meglio dei peripatetici annoiati e birromuniti con telefonino caliente di onde radio ad altissima frequenza.
E rimane comunque il fatto che di jazz non ne capisco una cippa. Certo, un assolo di Franco Cerri, mentre lui lo sta suonando, lo afferro, riesco a decifrarlo, potrei anche tentare di rifarlo, e così può essere addirittura per quel che sta suonando un sassofonista, relativamente alla musica non certo alla tecnica, posso tradurre la tromba, il contrabbasso… ma quando la musica finisce…bam, ho perso tutto. Le progressioni armoniche, le scale, le soluzioni tecniche. Tutto cancellato, rimango esattamente uguale a quando la musica non era ancora iniziata: un baccalà. Sarà questa la ragione per la quale non tutti quelli che suonano sono jazzisti? Tutte queste chiacchiere solo per farvi capire che non sono in grado di parlarvi dei brani che ho ascoltato, miei cari 7 lettori, e che sono semplicemente costretto a raccontarvi le mie impressioni da neofita su quel che ho visto e sentito, il resto immaginatevelo voi o fatevelo raccontare da uno più serio, sì, proprio uno di quelli di cui avete appena letto un articolo molto più interessante di questo, uno di quei giornalisti profondi e professionali di cui tanto vi fidate perchè, insomma, loro non vi direbbero mai che non ci capiscono niente, quindi è segno che ci capiscono…
Il Torino Jazz Festival (che già qualcuno chiama, con estrema e originalissima figosità, Tigeief) è diviso in almeno 5 sezioni, che vado abilmente, ma anche astutamente, a spennellarvi:
- Main Festival. E’ composto da due palcoscenici il primo, e più importante, è in piazza Castello e ospita i concerti serali, il secondo si trova in piazzale Valdo Fusi, piazzale che i torinesi conoscono assai bene per via della polemica, e delle vane proteste, per il parcheggio interrato che vi hanno costruito. Il parcheggio interrato non è così male, quello che ha fatto arricciare i nasi è stata la rifinitura finale della piazza, la copertura, che è in discesa verso una specie di casona che ospita l’ingresso pedonale al parcheggio e le due ali rialzate ai lati della piazza coperte da scarpate di terra. Io non ho una vera opinione in proposito, lo sapete che son svanito, solo evito di passare troppo spesso da quelle parti a causa della mia congenita debolezza di stomaco. Il piazzale ospita però anche una bella cosa, cioè il Jazz Club, proprio sotto una delle ali e davanti al Jazz Club è stata costruita una struttura coperta, temporanea, per i concerti pomeridiani. La capienza non è eccessiva, a occhio e croce mi sembrano 4/500 posti.
- Fringe Festival. Coinvolge un bel po’ di locali torinesi, sparsi principalmente in centro e ospita una miriade di musicisti, giovani e meno giovani. E’ probabilmente la parte più “classicamente jazz” dell’intera manifestazione, quella vecchio stile. Immaginate un piccolo locale fumoso e un trombettista in un angolo, sì proprio lui, Chet Baker, accompagnato da qualche degno compare, e un po’ di appassionati muniti di bicchiere ove ondeggia una bevanda molto alcolica e di colore ambrato. E’ proprio questo che intendo. Magari adesso non si può fumare e la bevanda è poco alcolica, forse il locale non è nemmeno tanto piccolo e sicuramente non ci suona Chet Baker, ma il concetto è quello.
- Special Events. Non ci crederete ma si tratta proprio di eventi speciali. Eventi di ogni tipo che non vado certo a elencarvi. Avreste dovuto essere qui a gustarveli e se non lo avete fatto ben vi stà!
- Cinema Massimo. La sala del “Museo del Cinema” ospita una interessante rassegna di film legati al jazz.
- Circolo dei Lettori. Una bella serie di iniziative, concerti e letture nel palazzo dell’associazione.
Tutti gli eventi, tranne qualcuno, sono gratuiti e questo dimostra, secondo me, che il Torino Jazz Festival è un progetto a lungo termine sul quale il comune punta molto. Ci contiamo anche noi cittadini, perchè è una iniziativa davvero “illuminata” e in questi tempi, un po’ dappertutto, gli sprazzi di intelligenza sono assai rari e l’illuminazione è quel che è. Io intanto, siccome sono un essere umano potrò seguire solo gli eventi del Main Festival, nel tempo che resta debbo far le cose normali che fanno i normali esseri umani: lavorare, fare la spesa, dormire, mangiare. Mi piacerebbe assai seguire l’evento a tutto tondo ma davvero non mi è possibile.
Let’s go.
E così il vostro amichevole Manodipietra di quartiere si avventura nel mondo del jazz presentandosi, bel bello, venerdì 27 in piazzale Valdo Fusi per la partenza ufficiale della manifestazione, e con ben mezzora di anticipo. La struttura coperta creata per ospitare questa serie di concerti è già traboccante di gente e quindi non vi si può più accedere. Accidenti! le possibilità che si prospettano sono due: rimanere nei paraggi per limitarsi ad ascoltare la musica così come arriva oppure arrampicarsi sulla scarpata in terra che ricopre l’estremità della piazza e il tetto del Jazz Club. Scelgo la seconda, anche se c’è da attraversare una enorme griglia metallica tutt’altro che invitante ma la musica va ascoltata frontalmente e non resta che inerpicarsi lì, con diverse centinaia di altre persone. Rischio anche di scivolare e intanto mi chiedo se non sarebbe stato più saggio sistemare il palco al centro della piazza, in fondo alla discesa e lasciare la gente a sedersi per terra, oppure far pagare un biglietto d’ingresso in modo da tenere lontano perdigiorno e scassaballe (che ce n’è davvero una teoria interminabile).
Il Buena Vista Italian Jazz è una formazione di jazzisti “di una certa età” che comprende Franco Cerri alla chitarra, Dino Piana al trombone, Renato Sellani al pianoforte, Luciano Milanese al contrabbasso e Gianni Cazzola alla batteria. La musica che questa band produce è un jazz di stampo ultraclassico quello, per intenderci, che prevede in ogni brano improvvisazioni a turno di tutti i musicisti coinvolti. E’ una musica che capisco poco o che forse non mi coinvolge anche se, in questo caso, la simpatia dei musicisti sul palco è a dir poco contagiosa.
A Piazza Castello, la sera alle 21, è tutta un’altra musica: ci sono gli Yellowjackets. Rispetto all’ultima formazione da me conosciuta mancano Jimmy Haslip e Bob Mintzer rimpiazzati da Felix Pastorius (sì proprio il figlio) e Bob Franceschini. Della line-up originale è presente ormai il solo Russel Ferrante in quanto Will Kennedy, venne arruolato in un secondo tempo. Fin dalle prime battute è chiaro che Franceschini è la star del gruppo con il suo sassofono sempre a primeggiare o a insinuarsi in ogni trama armonica o melodica, la classe è tanta e soprattutto non è acqua. Ascoltarlo fa bene alle orecchie, ragazzi, oltre che al cuore. L’altra primadonna è Will Kennedy. Essere la base ritmica di una banda Jazz/Fusion non credo sia facile, in quanto l’approccio da usare potrebbe essere arduo da individuare. Tipicamente jazzistico, con spazzole, borsalino in testa e sorriso fumante (per la sigaretta penzoloni)? o son meglio le bacchette belle spesse roccheggianti e rollanti (e conseguente preoccupazione per la possibile irritazione da parte dei puristi del jazz)? Will Kennedy usa un approccio alla Keith Moon, superando il concetto di “base ritmica” e interpretando in modo personale ogni “movimento” del brano in esecuzione. Con una energia non indifferente. Spettacolare un assolo molto veloce nel quale sottrae (cioè non suona) dei colpi, creando un effetto di “sincope” molto particolare. Felix Pastorius è un virtuoso del basso tuttavia non è suo padre, alcuni passaggi solistici mi sono piaciuti, ma tutto sommato la performance è stata piuttosto normale, senza i tuoni e il lampi di Franceschini e Kennedy. Russel Ferrante è rimasto alquanto ai margini anche lui, fungendo da collante e minimo comun denominatore per le altre sezioni del gruppo. Una banda superba, gli Yellowjackets, da rivedere al più presto.
Sabato 28 alle 21, sempre in piazza Castello, c’è Dionne Warwick & la Torino Jazz Orchestra. A me Dionne Warwick piace molto ma credo che in un contesto di musica gratis come quello del Torino Jazz Festival, che coinvolge un pubblico di ogni tipo e non solo di appassionati, un pubblico di birromuniti, curiosi canomuniti, giovani che aspettano di andare in discoteca, gruppi di amici chiacchieranti e vocianti, be’, credo che con un pubblico così eterogeneo e in grossa percentuale non competente, chiederle di interpretare un repertorio basato su Cole Porter sia stata una mossa ottimistica. Cole Porter è troppo raffinato e intimista per imporsi su chi non sa se giocare con l’alano o andare a prendersi un trancio di pizza. Ci voleva un repertorio molto più energico e Dionne, lo sappiamo ce lo ha, eccome. Il concerto è comunque ottimo e di gran classe, come ci si aspettava.
Domenica 29. Piazzale Valdo Fusi. Ray Gelato & His Giant Orchestra. Alle 17 ci sono già due file immense di persone che arrivavano fino in strada, strada comunque già preventivamente, e grazie a Dio, chiusa dalle forze dell’ordine. La famosa scarpata è ormai tutta piena e quando finalmente permettono alla gente in fila di entrare (non tutta perchè i posti sono, come sappiamo, limitati) molta altra gente continua ad affluire da ogni dove, gente che si sistema alla bell’e meglio in strada o nel piazzale dietro il palco. L’esibizione di Ray Gelato è esplosiva, divertente e coinvolgente, segno che lo Swing può raggiungere chiunque, anche il pensionato che si è recato al concerto perchè gli avevano detto che era gratis o la casalinga con sette figli, uscita un’ora di casa per svagarsi. Lo Swing può davvero attirare i giovani verso la musica, puo’ addirittura essere in grado di riconnettere i tessuti cerebrali del ragazzino telefonante e birromunito e fargli dire: “forte quel trombettista, magari a Natale invece dell’inutile tablet mi faccio regalare una tromba e do’ una svolta alla mia vita”. E a quella dei vicini, penserete voi, ma non è vero perchè il ragazzino telefonante e birromunito le balle ai vicini le rompe comunque per via del suo DNA, l’unico mutamento, in questo caso, riguarderebbe lui solo, ‘che la musica potrebbe davvero cambiargli la vita. Verso la fine del concerto di Ray Gelato alcuni ballerini di Lindy Hop si scatenano sotto il palco, fungendo da stimolo per il resto del pubblico che si lancia in ondeggiamenti inconsulti e in saltelli improbabili, ebbro di musica e scevro di ogni, sebben minima, dignità. Bello.
Billy Cobham suona in piazza Castello alle 21 e per lui vale lo stesso discorso fatto a proposito della Warwick: anche se elettrificato e potenziato da una batteria robusta con contaminazioni rock, il suo rimane un jazz classico, ancorato a schemi anni ’70 con influenze Progressive, inoltre la sua band, munita di doppio tastierista, è così seventies che di più proprio non si può. Sono convinto che la musica prodotta da questo insieme di musicisti debba essere ascoltata con attenzione, non nell’andirivieni di piazza Castello. In ogni caso anche se non è più innovativo come tanti anni fa e anche se altri batteristi l’hanno ormai tecnicamente “scavalcato”, la classe che mette in campo Billy Cobham è veramente tanta, si vede e si sente. Peccato che tutti i fancazzisti della piazza, con i loro frizzi e lazzi, i cani, le pizze, le birre, i telefonini, l’amico incontrato all’improvviso e il diavolo che non se li porta tutti in un luogo che magari gli piace anche di più, per ragioni misteriose si radunano sempre nel posto dove mi piazzo io impedendomi un ascolto decente della performance, che comunque è più “udibile” di quella della Warwick che a tratti era solo un sospiro sopra il brusio degli sfaccendati che mi perseguitano.
Lunedì 30. Gli acquazzoni si scatenano sulla città della mole e questa circostanza, unita ad altre, fa sì che debba rinunciare all’unico spettacolo che oggi mi attira veramente: Carla Bley. E’ proprio per questo che vi propongo qui un suo vecchio brano in concerto, 1990, ditemi voi se non è fantastica:
Martedì primo maggio. C’è la grande festa jazz, a partire dalle 17 fino a quando finisce. Arrivo in piazza proprio mentre comincia Lino Patruno e la sua band. Mi spiace essermi perso ciò che c’era prima ma la pioggia scrosciante mi ha tenuto in bilico per un po’. Alla fine, munito di ombrello ho deciso di partecipare comunque e la scelta è stata saggia: i perdigiorno canobirromuniti sono tutti altrove ed è possibile gustarsi la musica con una certa pace. Il Jazz in stile New Orleans di Lino Patruno, lo sapete, mi piace assai e lo spettacolo, molto gradevole, finisce fin troppo presto. Alle 19 è la volta di Greg and The Swingin’ Storm e ci troviamo di nuovo sul terreno di Ray Gelato con in più la componente, vincente, della comicità “fredda” di Greg e il concerto è davvero dirompente, tra classici rivisitati, a volte tradotti, e pregevoli virtuosismi strumentali. La sorpresa è proprio Claudio “Greg” Gregori: lo conoscevamo come conduttore e comico teatrale/televisivo/radiofonico, come cantante e come fumettista e oggi scopriamo che è anche un valente chitarrista, capace di ottimi assoli. Alle 20 arriva il Trio Rosenberg & Friend e la musica manouche prende il sopravvento su tutto, se la conoscete sapete perfettamente cosa intendo: non è solo jazz dal virtuosismo spinto ma, in perfetta tradizione ROM, anche una musica nata per ballare. Non sempre ci riesce, ma quando conserva questa caratteristica non ha eguali al mondo. Un concerto meraviglioso.
Poichè sono solo un normale, e forse volgare, essere umano, la combinanzione di vari fattori (fame, pioggia, stanchezza) alle 21 mi spinge a lasciare il campo e a salutare il Torino Jazz Festival, ho perso l’inizio della festa, perderò il finale ma quello che ho trovato in mezzo è stato davvero fantastico.
E improvvisamente tutto è finito, me ne accorgo perchè voi pretendete che io salti alle conclusioni anche se queste conclusioni sono realmente scontate: la prima edizione del Torino Film Festival è stata popolare, bella, divertente e organizzata piuttosto bene. Un vero successo, considerando anche le molte e fantastiche iniziative collaterali delle quali vi ho solo accennato in principio. La prossima edizione dovrà per forza di cose essere ancora migliore quindi butto lì alcune idee che mi auguro vengano ignorate, perchè se di mestiere non faccio l’organizzatore di eventi un motivo ci deve pur essere. Io sposterei il palco principale in piazza San Carlo, che mi pare proprio il posto ideale, lontano dal traffico di piazza Castello e forse dalla cornice (vedi i portici) più romanticamente jazz. Il secondo palco lo sposterei in un posto in grado di accogliere un numero di persone veramente grande giacchè, come abbiamo visto, attira anch’esso una enorme folla di appassionati. Mi piacerebbe anche che venisse organizzato un mercato di dischi e un altro di strumenti musicali e infine sarebbe bello se la sezione Fringe uscisse dai locali e si spargesse per tutta la città, magari nei parchi e in altri spazi aperti. E vorrei anche vedere su uno qualunque di questi palcoscenici, gente come Sergio Caputo, i God Fellas, le Blue Dolls e Carlo De Toma.
Comunque vada in futuro grazie agli organizzatori per questa bella esperienza.