Il mio canto libero
Negli anni ’70 i ragazzi italiani erano divisi, sostanzialmente, in due categorie: quelli che si interessavano di politica e quelli che invece no. Dei secondi non so molto, purtroppo, ne conoscevo alcuni ma tra noi non esisteva una grande compatibilità: i loro interessi si limitavano al desiderare un prestigioso mezzo di trasporto personale e all’andare a ballare la domenica pomeriggio nel vago, oltre che vano, tentativo di conoscere qualche esponente dell’altro sesso. Allora ancora nessuno immaginava che fosse possibile danzare anche dopo cena, se non in qualche effimera festa di piazza. I locali notturni esistevano, sì, ma si chiamavano Night ed erano un’altra cosa.
Quelli che si interessavano di politica erano una categoria più complessa che comprendeva infinite altre sottocategorie le quali includevano gente che magari non sapeva nulla di politica ma che doveva fingere il contrario per qualche strano e misterioso senso di appartenenza: Musicisti, Artisti, Fotografi, Attori, Scalatori, Peracottari e Ciarlatani d’ogni razza ed estrazione, sociale e no. Queste sottocategorie facevano sempre riferimento alle due grandi correnti nelle quali si divideva la categoria principale: Quelli che si interessavano di politica facendo del loro meglio per capirci qualcosa e Quelli che si interessavano di politica convinti di aver capito tutto e di doverlo insegnare agli altri. Esteticamente gli appartenenti alle due correnti potevano sembrare abbastanza simili ma a una analisi più approfondita le differenze erano sostanziali: i primi erano chiaramente post hippy mentre i secondi avendo mancato completamente la cultura del decennio precedente apparivano più normali, i primi tendevano a essere artistoidi mentre i secondi neppure ci provavano, i primi avevano sempre i capelli disordinati, avevano letto tutto il Capitale di Karl Marx ed erano costantemente accusati di qualunquismo dai secondi i quali, meglio pettinati e avendo letto le note di copertina del Manifesto del Partito Comunista, si erano convinti d’essere i depositari di ogni verità. Tutti portavano delle borse a tracolla vagamente ispirate all’India ma il contenuto li identificava impietosamente per ciò che erano realmente: i primi ci tenevano le sigarette, un quaderno d’appunti munito di penna, il Quotidiano dei Lavoratori (dal ’74) e il Male (dal ’77), i secondi, avendo avuto un’infanzia relativamente felice non fumavano, occasionalmente nella borsa infilavano Lotta Continua e un libro di Sarte che non avrebbero avuto mai il coraggio di leggere per intero. I secondi pensavano che il Partito Radicale fosse di sinistra, i primi no. E naturalmente le discussioni erano costantemente accese essendo i secondi massimalisti, anche se conoscevano meno massime dei primi, e i primi perennemente alla ricerca di una verità inesistente e in costante attesa di Godot.
Io ero l’Harry Potter della situazione quindi oscillavo tra le due fazioni. Appartenevo saldamente alla prima, ma mi pettinavo i capelli meglio che potevo. Non ero massimalista, essendo già affascinato dalla cultura indiana, ma piuttosto rigido nelle mie convinzioni e pretendevo lo stesso dagli altri, di conseguenza ancora adesso quando incontro un esponente della seconda corrente che, come tutti i suoi sodali, si è spostato su posizioni politiche immaginarie e tranquille non posso fare a meno di dirgli: “Ma ti ricordi quando accusavi gli altri d’essere qualunquisti, brutto coglione?”. Lui finge di non ricordarsi ma si ricorda e perciò si imbarazza parecchio, cercando di cambiar discorso.
Vi sono dei momenti nella vita di un uomo (e sospetto anche in quella di una donna) nei quali tutto cambia, nei quali una epifania inaspettata crea nuove speranze, svela nuove vie e un sacco di altre cose sempre nuove e inaspettate.
Non sono sicuro che in questo scritto io stia parlando di uno di questi magici momenti: in fondo nel ’72 ero un ragazzino e tutto il mio mondo era una continua epifania. Non era così anche nel vostro ’72, in qualunque anno sia capitato? Il fatto è che avevo già ascoltato un bel po’ di musica italiana e, diversamente dalla maggior parte dei miei coetanei, anche estera e come tutti la vivevo in modo sentimental-religioso e addirittura un po’ epidermico. Per darvi un esempio la prima volta che ascoltai Dolcissima Maria della PFM mi venne una pelle d’oca che, a ogni ascolto successivo da allora fino ai nostri giorni, non ha mai smesso di riproporsi. Questo perchè allora la musica era sì commercializzata, ma non era ancora il banale prodotto da consumare distrattamente che la società moderna espone nelle sue locandine da supermercato: era arte e quando non ci arrivava ci andava comunque molto vicino.
Probabilmente la ascoltai per la prima volta alla Hit Parade condotta dal buon Lelio Luttazzi e quella voce magica di Lucio Battisti fece indubbiamente il grosso del lavoro ma per la prima volta nella mia vita una normale canzone mi colpì violentemente alla pancia e il fatto che gli appartenenti alla seconda corrente la snobbassero sdegnosamente mi fece capire di essere davanti a gualcosa di grande, davanti a un artista di immenso valore del quale dovevo immediatamente rivalutare tutto quel che aveva proposto nel passato e che avevo scioccamente sottovalutato. Il testo del brano parlava con la voce dei Post Hippie e quando alla fine partiva il coro era come se tutti quelli come me, quelli sempre alla ricerca, vedessero finalmente, forse per la prima volta, la strada giusta. Quelli come me, gli appartenenti alla prima corrente, noi che volevamo diventar musicisti, che suonavamo la chitarra perchè ci piaceva come si vestiva Neil Young, che leggevamo anche Steinbeck oltre a Engels, che ci piacevano i colori invece del grigio imperante, che portavamo i capelli lunghi perchè li aveva Toni Iommi invece che come simbolo di protesta. Noi che volevamo cambiare la società non perchè tutti volevano farlo ma solo per renderla migliore. Il mio canto libero era forte già a partire dal titolo, lo era perchè evocava immagini positive nonostante il mondo “che non ci vuole più”, lo era perchè si trattava di una canzone magnifica, cantata divinamente, in grado di risvegliare sentimenti e sensazioni sconosciute o soltanto dimenticate. Se non vi piace Il mio canto libero allora probabilmente non siete neppure esseri umani o, peggio, appartenete all’altra corrente. Quelli dell’altra corrente a un certo punto ruppero le righe per gettarsi nel mucchio, così il mondo, alla fine, è cambiato davvero. In peggio.
Lo schifo che ci circonda, però, non è colpa nostra, noi ancora ci emozioniamo ascoltando le canzoni, per noi la parola compagno è sempre stata sinonimo di “fratello” e non l’abbiamo mai usata a sproposito. Noi ancora oggi amiamo i colori, Marx, Steinbeck, Tolstoj, la musica psichedelica e sogniamo un avvenire migliore per tutti. Ci vedete propio come degli imbecilli, vero?