Il centro musicale: a-ha, Take on Me (1984)
E a un certo punto, come dal nulla, comparvero i centri giovanili – o meglio, noi ragazzini venimmo a sapere, in qualche modo, che i centri giovanili esistevano e ci si poteva entrare. Fra l’altro, il termine “centro” sembrava pensato apposta per attirare un giovane forlivese, perché alla gente della mia città – me compreso – piace sapere esattamente cosa si può trovare in un certo posto, e se quello è esattamente il posto in cui lo si può trovare. Ti serve un paio di scarpe? C’è il Centro Scarpa. Devi comprare diari, penne e quaderni per il nuovo anno scolastico? Nessun problema, ecco il Centro Didattico Romagnolo. Di converso, l’esistenza di un centro musicale, di un centro teatrale e di un centro fotocinematografico che si chiamava “Lo Specchio” ci costringeva a farci una domanda che molti di noi non si sarebbero mai posti: ci interessava la musica, il teatro, la fotografia o il cinema?
Io, forse perché avevo già una chitarra, o forse perché era l’unico che sapevo dov’era, andai a finire al centro musicale. Il centro musicale era dentro al parco che adesso chiamano di via Dragoni, ma che per noi era solo il parco del centro musicale. Dentro c’erano una sala prove, che ci interessava molto, e una sala ascolto con i vinili e le riviste, che ci interessava un po’ meno. Nella sala prove ci suonavo con Matteo, e una volta siamo andati al centro musicale a strimpellare al piano anche se in realtà dovevamo fare le ossidoriduzioni. E nella sala ascolto, anche se mi interessava meno, qualcosa ci ho ascoltato, sempre guidato da gente della mia età che ne sapeva più di me. Dev’essere stato Marco, per esempio – Marco il bassista dei Darkcrystal, che spariva quando aveva una morosa e adesso è sposato e figurarsi chi lo rivede più – che mi ha fatto sentire per la prima volta Wish You Were Here dei Pink Floyd. Io non so se ho fatto finta di averla già sentita – forse no, perché Marco era un tipo rilassante, non mi veniva da fingere di sapere più di quel che sapevo – ma ricordo senz’altro di aver pensato che non era mica male, e che però se le canzoni le chiudevano un po’ prima, questi Pink Floyd, era meglio.
Ma il mio problema era sempre lo stesso – il contrasto fra la mia ignoranza e la mia voglia ancestrale di far vedere che capivo tutto. In un’altra occasione, qualche anno dopo, sempre nel parco del centro musicale, vicino al campetto da basket, parlavo di musica con Franco. Lui mi raccontava con entusiasmo di Garbo, di Lloyd Cole and the Commotions e di non so chi altro. E io cosa avevo da opporre, sul piano cultural-musicale? Mark Knopfler. Mi sembrava uno di classe, Mark Knopfler: Matteo mi aveva copiato su cassetta il raccoltone dei Dire Straits, poi avevo comprato la cassetta di Brothers in Arms e avevo sentito il singolo dei Notting Hillbillies. E tanto mi bastava per parlarne con simulata cognizione di causa, e come se lo avessi scelto fra mille compositori e diecimila chitarristi. Mica potevo starmene solo ad ascoltare, per dire.
Del resto, cosa potevo dire? Guarda, la mia cultura musicale si compone di una cassetta di Madonna e una dei Level 42 comprate intorno ai quattordici anni, e poi la cassetta di Scoundrel Days, cioè il secondo album sfigato degli a-ha – neanche quello dove c’è Take on me, per dire. Ah, e le cassette dei cantautori italiani pescate da mia madre nel Dixan, e i primi due album di Luca Carboni che mi aveva registrato il compagno di classe che poi è diventato CL, e il vinilone dei Beatles 1963-1966, e i dischi di Castellina Pasi che mettevo nel mangiadischi e mi portavo sulla macchinina a pedali per far finta di avere un’autoradio. Difficile costruirci su una mitologia, un’immagine da musicista.
Sì, avrei dovuto dirlo. E avrei dovuto dire che se ero lì, vicino al campo da basket, è perché dopo un po’ mi stufavo di fingermi musicista, e dovevo andare a giocare – malissimo – a pallacanestro. E dopo un po’ mi stufavo di non prendere neanche il ferro e di difendere male, e andavo a leggermi dei libri. E dopo un po’ mi stufavo di leggere dei libri, e andavo a giocare a calcio. E dopo un po’ mi stufavo dei miei compagni di squadra, e avevo bisogno di parlare con della gente che capiva qualcosa di musica. E quindi, in sostanza, non imparavo a fare bene niente di niente.
E anche in questo miniracconto, come in quegli anni lì, ho saltato un po’ di palo in frasca. Per cui tanto vale chiuderlo con due versi di una canzone degli a-ha che non è neanche Take on Me, e che riassume alla perfezione sia il senso di grandezza personale che avevo sia il fatto che era del tutto immotivato. Ecco come si sentivano gli a-ha, questi giganti incompresi del loro tempo che vendevano milioni di dischi scrivendo testi in una lingua che assomigliava curiosamente all’inglese:
They forgive anything but greatness
These are scoundrel days
Ma forse non mi avrebbero fatto suonare in nessun gruppo, se avessero saputo. Forse non mi avrebbero nemmeno fatto entrare nel campo da basket.