I giardini di marzo
Una volta gli autori dei testi delle canzoni venivano chiamati parolieri. Non so dirvi perchè, ma tenendo presente che le parole erano considerate più importanti della musica non oso immaginare gli appellativi con i quali ci si rivolgeva ai musicisti. Con il passare del tempo il termine è andato un po’ in disuso ed è stato sostituito da altri capaci di definire meno efficacemente il mestiere e meglio l’uomo che lo esercita.
Insomma, Mogol era un paroliere e a me le sue parole non piacevano, non perchè fossero brutte ma perchè a volte erano inutili e messe lì solo perchè suonavano bene. Ovviamente non capivo niente e fui costretto a ricredermi quando anche io tentai di scrivere qualche brano e mi resi conto che il “non piangere salame dai capelli verderame” era un colpo di genio e non, come avevo creduto fino ad allora, una sciocchezza.
E poi c’era la reale possibilità che una frase che sembrava messa lì a causa del suo suono accattivante avesse invece un profondo significato nascosto nella testa dell’autore, perchè i poeti così facevano e i parolieri erano improvvisamente e senza alcun segno premonitore diventati poeti a tutti gli effetti e questo complicava la vita a noi ascoltatori che dovevamo sforzarci di analizzare quel che ci veniva cantato, perchè ormai avevamo preso coscienza del fatto che non era mica detto che una frase apparentemente senza senso ne fosse davvero priva. E ancora non sapevamo che da lì a poco sarebbero arrivati a complicarci terribilmente la vita gli inventori di neologismi, e non tutti bravi e geniali come Marco Figlie, l’autore del testo di Dune Mosse, no, sarebbero anche arrivati mestieranti da quattro soldi buoni solo a massacrare la lingua e i nostri timpani.
Mogol era uno di quelli bravi, forse il più bravo e nonostante non fosse il mio preferito, del resto neppure Lucio Battisti lo era, spesso ne ammiravo l’eleganza e la scelta creativa delle parole, le soluzioni linguistiche inaspettate e quasi sempre davvero felici. Per dirla tutta mi piaceva un sacco ragionare sui suoi testi alla ricerca di sottintesi e insegnamenti di vita nascosti..
Fu in un giorno del 1972, non ricordo quale ma c’era il sole, che mia sorella mi raggiunse sul balcone che dava sul corso per farmi una domanda che aveva tutta la dignità di quelle scontate sui massimi sistemi: “Ma tu l’hai capita I giardini di marzo?”. Io lo so che il significato del testo è stato sviscerato e analizzato da chiunque e che alla fine lo stesso Mogol lo ha spiegato, seppur non molto chiaramente, ma io semplicemente a queste versioni non ci credo. Credo sì che Mogol abbia attinto a ricordi e immagini della propria infanzia, durante la scrittura, ma secondo me la parte autobiografica finisce lì, ci sono troppi elementi discordanti.
“Certo che l’ho capita” dissi a mia sorella, “La storia parla di una coppia di tossicodipendenti, lui vorrebbe fare lo spacciatore davanti alle scuole, per tirare su un po’ di soldi, ma non ne ha il coraggio e quindi sta a casa fra crisi di astinenza, pensieri dissociati e una ragazza che gli telefona solo per rompergli le scatole. Finchè, con l’arrivo della primavera lei che sogna di farsi una vita e una famiglia e convinta che lui ci lascerà la pelle, gli chiede aiuto per venire fuori dal tunnel della droga. Lui però la pianta in asso perchè, diciamocelo francamente, lei è proprio una stronza.”
Mia sorella concordò: “Ti facevo molto meno intelligente” disse e andò a sbrigare qualche faccenda da qualche altra parte. Adesso io invito voi, cari i miei 7 lettori, a fare una ricerca sul significato di questa canzone e a confrontare le mille opinioni che troverete dapprima con il testo della canzone stessa, per accertarvi che non ci siano discrepanze e parti irrisolte (e ne troverete a decine) e poi a confrontarle con le mie di adolescente nel ’72 che, invece, filano lisce come l’olio.
Mogol era uno specialista in metafore e I giardini di marzo ne contiene una molto bella “Attrice di ieri” riferita a una fidanzata che si è appena lasciata. Tuttavia la più grande metafora che mai ha visto la luce nella canzone italiana è “Avere nelle scarpe la voglia di andare”, sempre di Mogol, contenuta in Prigioniero del mondo, che vi consiglio di ascoltare subito anche perchè mi piace molto di più de I Giardini di marzo.
Bella interpretazione anche se credo non corretta: il buon Mogol amava le metafore, delle quali comunque non abusava e che erano quasi sempre facilmente comprensibili (attrice di ieri, avere nelle scarpe la voglia di andare), ma non era certo un ermetico.
mah… un disagio più complesso direi…il desiderio di reagire a tutta una situazione, quale? e non averne la forza… la madre potrebbe simboleggiare la patria: c’è un lutto ma ci sono anche i fiori, ancora un po’ di speranza, fino a quando? Marzo, giovinezza, primavera appena iniziata, ma anche Quaresima, e anche Idi di Marzo… Il protagonista non vorrebbe anche se ne è tentato imitare il tradimento di molti coetanei (e non…) che svendono gli ideali prima coltivati (avrò un’idea strana, ma a prenderlo alla lettera vendere i libri di scuola smessi sarebbe così tragico?)e d’altra parte non sa impegnarsi veramente per l’ideale. La sua ragazza… non credo che intenda lasciarlo perché lo vede così abulico mettendolo così ancor più in crisi: quel “tu muori” è un rimprovero per scuoterlo, è la sua coscienza che vuole impedirgli di lasciarsi andare e seguire la tentazione del conformismo , è come Beatrice che in segno di disapprovazione a Dante non lo guardava più, e lui comprese che doveva cambiare… E così il protagonista non deluderà la sua Beatrice, simbolo o donna in carne ed ossa o entrambi che sia: eviterà ogni tentazione conformistica, si porrà al servizio dell’ideale per quanto scomodo! Interpretazione troppo “politica”? Beh, Lucio Battisti è stato tanto interpretato politicamente…
È sconcertante…… Pure io ho dato al testo il tuo stesso senso…. Mi sorge il dubbio che la spiegazione di Mogol sia un po’ addomesticata per l’argomento non ancora “di uso comune” a quei tempi per la canzone italiana….. uscito dalla sua penna poi… davvero improbabile. Rimane comunque in ogni versione il profondo senso di malinconia per l’estraneità alla Vita, al mondo che lo circonda, una specie di “sfumato”, di voci e volti lontani appunto perché non condivisi. Ne consegue il fuggire ancora più dalla realtà che lo ignora e il rifugiarsi nel proprio mondo tramite espedienti “di plastica”, gli unici però che gli permettono di fargli accettare se stesso e di dargli una serenità profondamente cercata e appagante ma sempre con un angolino vigile della sua mente che lo mette di fronte alla consapevolezza che “la carrozza tornerà inesorabilmente zucca”, il mondo crudele é sempre là fuori che lo aspetta. Mio Dio che tristezza, spero sia vera la spiegazione di Mogol………….