Homburg
Tutti noi che ci interessiamo un po’ di musica siamo, prima o poi, finiti nel burrone del Grand Ole Opry, il grande show americano in onda da sempre, in radio, il sabato sera (ma non solo) da Nashville e luogo mitologico della Country Music d’ogni ordine e pensiero. Le storie le conosciamo tutte, dalla prima all’ultima: il re Bill Monroe, Loretta Lynn l’outsider vincente, l’America che si ferma e che si raduna intorno alla radio nelle case, nei locali, per la strada. E poi leggiamo ovunque i ricordi malinconici di chi ci suonava e di lo ascoltava e questi ricordi pian piano diventano nostri, ci fanno diventare nostalgici anche noi di Bill Monroe e di Loretta Lynn con i loro microfoni accesi verso i diffusori audio di tutto l’universo e il pubblico critico ma adorante pigiato sotto di loro. In tutta questa operazione di recupero emotivo della tradizione ci scordiamo che non si tratta proprio della nostra tradizione, che non si può rimpiangere qualcosa che non si è mai avuto e che magari, se fossimo appena un po’ più furbi, lo struggimento dovremmo provarlo per il nostro Grand Ole Opry italiano e non per quello di un posto che sta dall’altra parte dell’oceano. Il nostro si chiamava Gran Varietà ed andò in onda dal 1966 al 1979 su radiodue dalle nove e mezza di domenica mattina fino, più o meno, alle undici. Certo, come si può facilmente evincere dal nome non era un programma esclusivamente musicale e gli sketch comici non mancavano, ma è di tradizione che stiamo parlando, della capacità di attirare l’attenzione di un paese e di radunarlo davanti a un focolare elettronico mica di scalette o programmazione. Per la precisione stiamo parlando di radici.
E’ la radio, bellezza, la civiltà di quegli anni laggiù sullo sfondo che, con passi incerti ma da gigante, agguanta il futuro tra un monologo di Arnoldo Foà e il disco al primo posto di Hit Parade.
Allora diciamocelo pure con la massima franchezza: Gran Varietà aveva una capacità di attrarre la nazione che il Grand Ole Opry non si sognava neppure nei momenti di maggiore splendore, semplicemente perchè non era costretta in un recinto di genere come poteva essere il country ma era generalista al massimo livello immaginabile e obbligava l’Italia intera a correre in negozio a comprarsi radio d’ogni modello e potenza, a fare i salti mortali per ascoltare lo show e conciliare contemporaneamente l’improcrastinabile messa della domenica mattina. Quello del rito domenicale era un problema mica da ridere e le possibilità a disposizione non erano molte, c’era la funzione delle otto che costringeva ad alzarsi almeno alle sette e quella di mezzogiorno che spostava l’agognato pranzo domenicale all’una e mezza e se a sud questo non costituiva un problema al nord diventava un piccolo dramma perchè allora, prima che la televisione unificasse pensieri e orari, al di sopra della linea gotica si mangiava sempre alle dodici in punto. Ulteriori alternative prevedevano la replica della trasmissione al sabato pomeriggio o la liturgia pomeridiana anche se questa scelta rompeva clamorosamente la tradizione della passeggiata mattutina verso la chiesa, delle critiche verso i vestiti degli altri, delle donne coperte dal velo nei banchi a sinistra e della tavola imbandita in attesa, con tante cose buone preparate dalla mamma che era restata a casa a cucinare ascoltando Gran Varietà, tanto per lei gli obblighi religiosi non valevano e se valevano poteva espletarli al vespro, dopo aver sfamato la famiglia, lavato i piatti e rigovernato la casa .
Il massimo dei massimi era restaresene a letto per tutta la durata del programma e ascoltarselo godendo del sole che filtrava dalle tende mentre con la fantasia, ma qui parlo per esperienza personale, si pregustava il film che avrebbero proiettato alle due e mezza al cinema parrocchiale, quello con Brigitte Bardot e quell’altro attore francese che non riuscivo ma i pronunciarne il nome. E dopo il cinema Salgari, Jack London, Mark Twain e chissà quanti altri che non ricordo più ma che porto tutti i giorni in giro, immagazzinati in qualche remota e inaccessibile parte del mio povero e ormai vicino alla scadenza cervello.
Gran Varietà era pieno di stacchetti musicali che fungevano da sigle per i numeri che seguivano e che erano quasi sempre versioni rivedute e corrette dei successi del momento eseguite dagli interpreti originali e fu proprio lì, mi pare, che ascoltai per la prima volta Homburg dei Procol Harum. Va bene, forse non ho proprio detto l’esatta verità ma una sua versione minore, si trattava infatti della cover in italiano cantata dai Camaleonti e intitolata l’Ora dell’amore, il fatto è che la canzone mi colpì moltissimo per come era strutturata e quando qualcuno mi disse che in realtà era un brano scritto da un gruppo straniero mi sembrò di aver capito tutto della vita, dell’Italia, del mondo. Poi però, qualche tempo dopo ascoltai la versione originale e scoprii che preferivo, di gran lunga, quella dei Camaleonti.
La morale della favola? non c’è, è solo una canzone.