Grateful Movie
I Grateful Dead non sono certo tra i gruppi storici americani più noti in Italia anzi, senza volere offendere nessuno (che qui c’è gente che si offende per niente, e io sono uno di quelli 😉 ), la maggior parte degli italiani che li conosce in realtà ne ha sentito più che altro parlare o ne ha visto qualche foto da qualche parte oppure è successo che un vecchio rimbambito come il sottoscritto ne ha attaccato un adesivo alla chitarra e l’adesivo galeotto ha suscitato alcune blande curiosità negli astanti, qualche domanda della quale si è subito scordata la risposta. Gli appassionati sono davvero pochi e anche i “generici” esperti di musica non vanno mai davvero oltre qualche sporadico ascolto di Truckin’ o, al massimo, di One More Saturday Night e la TV, direttrice d’orchestra della nostra superiore cultura nazionale, non aiuta, visto che non tratta della band californiana. Credo addirittura che non ne abbia parlato neppure in occasione della morte di Jerry Garcia, il loro mi(s)tico chitarrista e se lo ha fatto è successo in orari frequentati solo da vampiri e licantropi. La mancanza di servizi televisivi italiani è stata un vero peccato perchè il buon Jerry, lassù in cielo, si sarebbe sicuramente spanciato dalle risate, considerando l’imbarazzante scarsa qualità delle commemorazioni messe insieme della nostra amata radiotelevisione d’ogni indirizzo e padrone, capacissima di lodare la grandezza del sassofonista di un gruppo che non ha mai avuto un sassofonista. Io guardo pochissimo il piccolo schermo, ve l’ho già detto in ogni occasione, e probabilmente a mia insaputa vi sono state intere trasmissioni dedicate a loro, ma da quando li ho incontrati (metaforicamente parlando) per la prima volta (più o meno nel 1970) a oggi, io non ho mai udito il nome Grateful Dead pronunciato dalla nostra (assai più che) integerrima e (assai più che) pluralista TV nazionale.
Bisogna anche dire che i Dead non è che fossero proprio dei forzati della promozione o dei cultori delle public relations. Non hanno neppure mai curato come si deve la realizzazione dei dischi o i tour al di fuori degli USA, figuriamoci cosa gli importava del nostro piccolo italico lembo di terra borghese adorante suole di scarpe cardinalizie e papali, perciò non c’è affatto da stupirsi se in nostri autoreferenziali addetti ai lavori li hanno sempre caparbiamente ignorati. Certo, ignorarli è stato un crimine, considerando l’importanza sociale, oltre che musicale, che la banda ha guadagnato nel suo paese e fuori, ma la realtà e la verità non non sono mai state ai primi posti nella scala di valori usata dai nostri media nel mettere insieme le notizie da proporre alle casalinghe sfiancate da una giornata di lavoro e prede di un momentaneo odio verso l’umanità da sfruttare con astuzia. Quindi chi ha orecchie per intendere intenda, a caval donato non si guarda in bocca e, se non c’è la panca, la capra cosa fa?
I Grateful Dead riuscirono a unire intorno a loro, una vera e propria nazione i cui abitanti decisero di chiamarsi Deadheads. Una nazione con delle proprie leggi e delle proprie regole, non scritte perchè una nazione così non può avere né leggi né regole, una nazione che si muoveva insieme ai TIR che trasportavano gli strumenti della banda o che con molti giorni d’anticipo si radunava in occasione del prossimo concerto, ridisegnando la città che l’ospitava con mille colori differenti, con macchine d’altri tempi, pulmini volkswagen, abiti e cervelli hippie, migliaia di bambini biondi o magari neri, ragazze giovanissime e bellissime, dagli orecchini piegati a mano, con le loro madri non più giovani ma sempre bellissime che, insieme al marito dotato di baffoni a manubrio e fascia nei capelli, erano sempre in cerca di un chiosco di cocomeri. I Deadheads cercavano di assistere al maggior numero di concerti possibile, alcuni raggiunsero i mille o duemila, e la maggior parte di loro aveva anche una vita, da qualche altra parte (potevano essere droghieri, senatori, sportivi, operai, postini), mentre altri semplicemente vivevano ai margini del carrozzone che la banda portava a spasso, sopravvivendo in qualche modo, spesso registrando i concerti e vendendo i nastri in giro, attività tollerata e addirittura permessa dagli stessi Dead.
Quando i Dead si muovevano si portavano appresso una intera popolazione, cari i miei 7 lettori, una popolazione con al suo interno addirittura delle sette, come gli Spinners, i Minglewood Town Council, i Touchheads, i Shakedown Street, i Wharf Rats, e delle religioni, non ultima quella che vedeva il proprio profeta nello stesso Jerry Garcia.
I Deadheads, come nazione trasversale portatrice dei valori hippie, si diffuse a macchia d’olio negli states dapprima e nel resto del mondo poi e nonostante i Grateful Dead non ci siano più loro continuano a esistere, a seguire i concerti dei singoli membri della banda, a ritrovarsi, a crescere. Tutto questo, lo capite senza bisogno di ulteriori spiegazioni, non è sufficiente per far destare l’interesse dei nostri media che per muoversi abbisognano dell’ovvio appeso al muro e di una fetta di provolone sempre pronta in una tasca interna della sahariana di moda negli ultimi quindici minuti.
Credo di essere un deadhead anche io, perchè condivido gran parte dei loro valori hippie e ne riconosco tranquillamente gli errori (degli hippies, non dei Dead), come il non aver mai superato nei fatti un certo maschiocentrismo che non ha aiutato per nulla la crescita del movimento. Sono un deadhead perchè pur amando soprattutto gli album acustici dei Dead, quelli più legati alla forma canzone (quali sono scopritelo da soli), la musica che esce fuori dalle mie mani (con le dovute proporzioni) assomiglia a quella che loro producevano nelle loro lunghe improvvisazioni o, come le chiamava Jerry Carcia, composizioni istantanee.
Non ho intenzione di parlare, qui, dei Grateful Dead o della loro storia, né tantomeno della loro musica per descrivere la quale non ho neppure sufficienti capacità culturali. Mi piacerebbe solo, se ancora non li conoscete, presentarveli in qualche modo e la maniera migliore, oltre a suggerirvi l’ascolto di qualche CD, è mostrarveli tramite i documenti video che abbiamo a nostra disposizione, perchè così è possibile scoprire, oltre alle composizioni, anche qualcosa delle persone che le hanno suonate, se si presta una adeguata attenzione. Per esempio una delle prime cose che vi salterà all’occhio, guardando i DVD dei Grateful Dead, sono i vestiti del tutto normali che usavano, lontanissimi dalle “divise” hippie che altri gruppi amavano indossare (Jefferson Airplane, Big Brother and the Holding Company), a testimonianza della loro insofferenza nei confronti dell’uniformazione, delle regole (perfino delle regole “alternative”), dei clichè.
E’ possibile reperire diversi DVD sui Dead, nel mercato italiano, mentre in quello di lingua anglosassone la filmografia è parecchio più vasta. Io vi parlerò, brevemente, soltanto di quel che ho potuto vedere con i miei personalissimi occhi, sebbene notevolmente cecati. Aggiornerò la lista man mano che mi capiterà di vedere altri film.
Ovviamente, è non c’è bisogno che ve lo dica io, infedeli, questo è un film che dovete avere assolutamente anche solo per vedere la faccia di Grace Slick durante l’esibizione dei Jefferson Airplane: lei aveva passato il giorno precedente e gran parte della notte per capire qual era il modo migliore di presentarsi al pubblico e, quando infine salì sul palco, gli altri l’accolsero con un “ma come cavolo ti sei conbinata?”. In effetti il look e soprattutto la pettinatura non erano tra i più indovinati ma a Grace Slick noi siamo perfettamente in grado di perdonare ogni cosa, vero? |
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Grateful Dawg. E’ un film di Gillian, la figlia di David Grisman, realizzato utilizzando il materiale che aveva girato per puro divertimento durante la collaborazione di suo padre con Jerry Garcia e con l’aggiunta di testimonianze più recenti. I Grateful Dead entrano solo marginalmente in questo DVD dove si parla di country, mandolini e banjo, ma il film è davvero molto bello e consigliato proprio a tutti coloro che sono almeno un po’ appassionati di musica. Dura 78 minuti e contiene un bel po’ di materiale extra. Ah, dimenticavo, David Grisman è uno dei migliori mandolinisti country-folk viventi e “Dawg Music” è il modo nel quale definisce quello che suona: un bluegrass (naturalmente) contaminato da diverse influenze europee e un po’ anche dal jazz. |
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