From the Beginning
Il mio rapporto con gli Emerson, Lake & Palmer è stato, come dire, lineare ma in senso inverso: cominciò nel ’73 con Brain, Salad, Surgery (primo disco comprato con soldi interamente miei e non ricevuto in regalo o per altre oscure e misteriose vie)1, continuò con l’acquisto del lavoro precedente, Trilogy, di quello precedente ancora, Tarkus, e infine con quello del primo, bellissimo album che aveva in copertina una colomba tremolante e un misterioso orecchio, quello che i veri critici, anche per dimostrare che han ben studiato l’italiano, definiscono eponimo e che tutti noi che critici non siamo e che con l’italiano abbiamo i problemi che abbiamo, ci limitiamo al massimo ad ascoltare. Invece non comprai mai gli LP successivi perchè mi piacevano poco, non che fossero brutti, allora non avevo la competenza necessaria per capire certe cose (proprio come adesso), semplicemente ero passato oltre.
Erano tempi pionieristici durante i quali la musica si ascoltava dando rilievo alla stereofonia e cercando di capire il significato di ogni singolo suono o scampanellìo, atteggiamento positivo, motivo di grandi soddisfazioni nei musicisti e mai più reiterato negli anni, purtroppo, perchè l’epoca delle informazioni torrenziali che non davano nessuna informazione arrivò brusca e cattiva, portandosi via una cultura che avevamo faticato parecchio a costruire e sostituendola con MTV, McDonald’s, Big Brother e altre magiche invenzioni indispensabili per la crescita umana, sociale e intellettuale dell’individuo. Al tempo di Brain, Salad, Surgery era tuttavia ancora in voga quella condotta illustrata poche righe fa e che mi permise di apprezzare i 20 minuti buoni di Karn Evil 9, anche se il brano dell’album che più mi colpì fu sicuramente il tradizionale Jerusalem, suonato con una furia organistica capace di fare rizzare i peli di braccia, gambe, testa e di altre parti del corpo assai meno conosciute, ma anche di questo vi ho già parlato altrove, quindi procediamo spediti verso il nocciolo della questione.
Nel ’73 avevo già avuto una band, naturalmente molto più che sfigata, nella quale suonavo il flauto, l’armonica (forse cromatica) e canticchiavo anche se, e con questo spero di suscitare l’interesse di eventuali psicologi presenti, con quel gruppo non riesco a ricordare un solo momento in cui cantavo o suonavo il flauto o l’armonica o un qualsiasi altro strumento: eravamo in cinque, con una batteria ricavata dai fustini di detersivo e coperchi, sottratti a povere e innocenti pentole di incerta proprietà, mascherati da stonatissimi piatti, c’era una prima chitarra scassata e gli altri due non ricordo bene che aggeggi brandissero, quasi sicuramente una melodica e una seconda chitarra, ma non ci scommetterei una lira fuori corso. Facevamo grandi chiacchierate, grandi sogni e qualche orribile strimpellata sferragliante, che le chitarre non le sapeva accordare nessuno o, se per miracolo qualcuno riusciva ad accordarle, venivano suonate proprio da schifo. Colui che si era autonominato nostro unico e grande leader voleva in principio fare il cantante, però era negato in modo addirittura imbarazzante quindi, poichè aveva trovato in casa un legno a sei corde, decise che avrebbe fatto l’axeman, il guitar hero o qualcosa di simile. Però era del tutto incapace, più incapace ancora che con la voce, e ogni volta che tentavo di insegnargli degli accordi (anche io torturavo una chitarra al di fuori di quel malsano contesto) si offendeva a morte e giurava di conoscerli assai meglio di me, da parte mia ero propenso a credergli essendo già allora l’impedito Manodipietra che oggi leggete e (forse) apprezzate. Quando infine gli altri decisero che la chitarra principale avrei dovuto suonarla io perchè non ne potevano più di sferragliamenti, e magari anche perchè gli ululati del mio flauto li avevano ridotti a un misero fascio di nervi tremanti, lui mi accusò di avergli sottratto la creatura che con tanto amore aveva creato e, che ci crediate o no, stava parlando proprio della nostra band poi, con grande dignità, e un considerevole numero di vaffanculo provenienti da mille e mille direzioni, prese la porta e se ne andò sdegnosamente, subito seguito da tutti noi che, senza di lui, non avremmo più saputo a chi dare la colpa del fatto che facevamo cagare oltre ogni umana e disumana immaginazione. Io decisi che non avrei mai fatto più parte di un gruppo anche se poco tempo dopo ne formai uno nuovo di zecca e, aggiungo arditamente, davvero forte nel quale avrei dovuto cantare, suonare il basso e qualche volta la chitarra, c’erano poi un batterista piuttosto bravo e un pianista/organista di tutto rispetto. Certo, mi tocca confessare che il batterista aveva i denti marci ed era chiaramente un maniaco sessuale depravato dall’igiene personale perlomeno discutibile mentre il tastierista era un figuro alto e allampanato che portava degli occhiali spessi due dita appoggiati su un naso che da vicino ricordava una roncola arrugginita ma da lontano il vostro incubo peggiore, tuttavia pensai che il dover sostenere sulle mie spalle l’intero peso dell’immagine del gruppo potesse avere dei risvolti interessanti e mi lanciai nell’avventura. L’avventura si concluse invero bruscamente quando il bizzarro naso ci disse che gli si era scassato l’organo elettrico e che per spostare il pianoforte a muro dalla sua stanzetta avremmo dovuto sborsare dei soldi, ma fu bello immaginarci, per un breve periodo, come gli emuli italo-adolescenti degli Emerson, Lake & Palmer.
A questo punto penserete, cari i miei 7 lettori, che io e i miei due compari fossimo accesi fan degli EL&P ma, almeno per quel che mi riguardava, non era così. Certo li apprezzavo ma non al punto da voler emulare la loro musica considerando che la mia era irrimediabilmete il rock’n’roll, era successo semplicemente che avevo comprato Trilogy, e avevo deciso che volevo farmi delle foto come quelle che loro avevano messo nella copertina interna. Quelle immagini erano formidabili, semplici ma artistiche, discrete e d’impatto. Le volevo anche io a costo di mettere su un complesso di rincoglioniti!!!
Trilogy mi colpì anche per due brani, il primo era From The Beginning, caratterizzato dall’alternarsi di ritmica e arpeggio alla chitarra che decisi subito di imparare a suonare con risultati piuttosto patetici. Tutti i chitarristi che conoscevo lo eseguivano praticamente alla perfezione ma io semplicemente non ci riuscivo, così ben presto decisi di lasciar perdere, forse perchè sapevo già riprodurre altre canzoni della band in maniera abbastanza dignitosa e parlo, come già sospettate, di alcune creazioni di Greg Lake come Still… You Turn Me On e Lucky Man, ma la frustrazione di aver fallito con From The Beginning mi ha accompagnato in tutti i decenni a venire fino a un paio di giorni fa quando ho imbracciato la mia vecchissima Washburn D14 e, per la prima volta dopo una intera vita e senza averla mai più provata, l’ho semplicemente suonata senza sforzo alcuno e ho scoperto che non mi piace neanche tanto. Era di molto meglio Abaddon’s Bolero l’altro brano che aveva rapito il mio interesse, ma non ho intenzione di cimentarmi nella sua esecuzione, se dovessi riuscirci otterrei il solo risultato di rovinare per sempre una solida immagine manopietristica faticosamente costruita e consolidata nel corso degli anni.
- Come già raccontato più volte [↩]