Fabrizio De Andrè in concerto
Una volta bisognava chiamarle con il cognome, e per me fu sempre la maestra Barbero, non Giuseppina come si userebbe adesso. Faceva il suo lavoro per vocazione e questa è una cosa molto rara oggi come ieri: ci sono buoni insegnanti e ottimi insegnanti, ma insegnanti nati con la vocazione no, è difficilissimo incontrarne anche solo uno sulla propria strada. Lungo la mia strada io incontrai la straordinaria maestra Barbero e l’inarrivabile professor Andreietti, quindi fui dannatamente fortunato, probabilmente troppo fortunato. Del professor Andreietti e di come, in prima media, tra le altre cose riuscì a farci mettere in prosa, perdipiù divertendoci, l’intera Iliade parlerò un’altra volta, questa storia non è sua…
La maestra Barbero, diversamente da come ve la state immaginando, non era affatto una vecchia e saggia madama torinese, si trattava invece di una signora relativamente giovane, sofisticata e incredibilmente in anticipo sui tempi, gli interessi che coltivava erano molteplici e vari, spallegiati da idee moderne e avanzatissime. Nessuno poteva fermare le centomila iniziative che sfornava a getto continuo neppure i suoi amati scolari, sebbene con l’argentovivo addosso: era parecchio difficile starle appresso, credetemi. A volte, nella bella stagione e se c’era il sole, ci portava in qualche giardino o prato e la lezione si faceva lì, perchè diceva che era un peccato sprecare una così bella giornata. Posso solo immaginare quali e quante battaglie doveva combattere quotidianamente con il direttore, e l’epica lotta prima di farcela a realizzare quella piccola biblioteca che tanto aveva desiderato e potere finalmente prestare, gratuitamente, libri importanti e selezionati a noi poveri figli di immigrati, brutti sporchi e cattivi, sì, proprio noi che stavamo nei banchi in fondo, lontani dai bambini biondi e belli capaci solo di stare buoni nel primo banco a scrivere in bella calligrafia cose per loro del tutto incomprensibili. Moby Dick e I viaggi di Gulliver
li leggemmo in quarta elementare grazie alla maestra Barbero, che ci aiutò a decifrarli magari in strane e peripatetiche lezioni nella natura di quella perduta e campagnola periferia torinese. Insomma, anche se eravamo figli di immigrati a lei di questo non importava un fico secco perchè la nostra origine non era il metro con cui giudicava noi o chi ci aveva messo al mondo. Il posto dove eravamo nati non determinava in anticipo i suoi giudizi sulle nostre capacità o sulla nostra intelligenza, come allora facevano in molti in un lungimirante trailer del moderno razzismo italiota, per farlo lei usava Moby Dick e i Viaggi di Gulliver e, date retta a me, era un metodo fantastico. State sicuri che al giorno d’oggi parecchi laureati in giurisprudenza avrebbero non pochi problemi a decrittare testi simili.
Potrei andare avanti a parlare della maestra Barbero per un miliardo di parole e più ma non è questa la sede, vi basti sapere che rimasi in contatto con lei fino all’età adulta, per mezzo di cartoline, brevi lettere e qualche incontro per la strada, io con i capelli sempre più lunghi, lei ogni volta un po’ più piccola della volta precedente.
Poi scomparve dalla mia vita, non so se a causa dello scorrere del tempo che tutto oblia e trasforma o perchè si era trasferita in cima al mondo per seguire qualche figlio in difficoltà e io persi l’indirizzo che mi aveva scritto su un sacchetto della spesa. “Sei uno dei pochi che si ricorda sempre si me”, diceva. Non credo proprio, signora maestra, forse ero uno dei pochi che lo dimostrava, ma sono convinto che nessuno di noi l’ha mai dimenticata, non sarebbe possibile neppure volendolo: quello che siamo lo dobbiamo a lei.
Stavamo tra il ’68 e il ’69 e un bel giorno la maestra Barbero, ci domandò quale era la musica che preferivamo, quali i dischi che ascoltavamo in casa. Le risposte che ottenne furono quelle scontate: Celentano, Morandi, Caselli, Villa, Reitano e via così. Io, che ero tra i più originali e avanzati, oltre a Morandi citai, naturalmente, Sylvie Vartan, Adamo, i Corvi, i Giganti, i Bisonti e i Beatles. Lei scosse la testa, preoccupata, e il giorno dopo si presentò in classe con un giradischi di quelli portatili e un paio di LP, formato a noi praticamente sconosciuto dal momento che i 45 giri, in quei lontani giorni in bianco e nero, regnavano sovrani. “E’ ora che conosciate una musica diversa” esclamò con un tono che stava tra la minaccia e la promessa, e mise su i dischi che aveva portato. Siete capaci di indovinare chi cantava
in quei dischi? Fabrizio De Andrè, naturalmente. Al termine dell’ascolto le domande, e le conseguenti spiegazioni, furono inevitabili e tante e poi, dopo ancora, arrivarono le proteste di alcuni genitori, e sicuramente la consueta ramanzina da parte del direttore, fatti che non scalfirono minimamente la granitica forza della maestra Barbero: lei era lì per insegnarci tutto quel che sapeva e per fare il nostro bene, questo solo contava, chi non era capace di capirlo poteva tranquillamente andare a farsi friggere. Vi prego di non immaginarla a capo chino mentre subisce rimproveri e reclami, voi non avete visto mai lo sguardo di compatimento che usava verso chi entrava in contrasto con lei, era impossibile batterla, ci si poteva soltanto umiliare stupidamente.
Avete idea di cosa significhi per un bambino degli anni ’60, abituato alla TV dei ragazzi e Canzonissima, l’incontro con Fabrizio De Andrè? lo sfiorare il pensiero anarchico, Brassens e Carlo Martello che torna dalla battaglia di Poitiers? come lo spieghi Carlo Martello a un bambino degli anni ’60? Io ricordo solo il disco che girava, la maestra che parlava e i due ricordi si sovrappongono nella mia mente per separasi quasi subito e dopo prendere direzioni diverse, il viso dell’insegnante sempre più lontano e indistinto, il giradischi sempre qui, ma senza i dischi di De Andrè a girarci sopra.
Lo sapete già, miei cari 7 lettori, io sono un Gucciniano. De Andrè l’ho lasciato indietro quasi subito perchè non incontrava la mia sensibilità, aveva una voce che era un dono di Dio, sì, ma le sue parole erano, secondo me, esageratamente drammatiche e scelte con lo scopo di creare inutili, piccoli shock. Il giudizio era riduttivo e anche un po’ stupido, lo ammetto, ma la realtà è che lui era troppo francese e io della Francia amo tutto meno che la musica. Guccini, in fondo, aveva la mia stessa anima rock e sapeva usare la metrica in modo accattivante, geniale per il mio modo di intenderla, era un Pascoli dei nostri giorni, privo del suo dolore però con diverse incazzature in più. De Andrè non avrebbe mai potuto scrivere l’Antisociale, Guccini sarebbe stato tranquillamente capace di comporre Carlo Martello e forse addirittura la Guerra di Piero…c’era poi quella critica, quella che conoscete bene, che tutti facevano a Fabrizio De Andrè e che tutti han negato dopo la sua morte. Se non sapete di cosa sto parlando allora non conoscete abbastanza De Andrè, quindi non importa. Io non ho mai cambiato idea a proposito, anche se debbo ammettere che le sue vicissitudini umane han di fatto contribuito parecchio a minimizzare questa mia valutazione fino a ridurla a un odore lontano, una eco.
La verità è una sola: De Andrè è stato colui che mi ha fatto capire che un’altra musica era possibile, e un padre lo puoi contestare, lo puoi allontanare, lo puoi rifiutare ma non puoi negare il fatto che discendi da lui, che almeno metà del tuo DNA è suo perciò, forse a causa della maestra Barbero, non sono mai riuscito a separarmi veramente da De Andrè e non sto parlando di quando, insieme a un amico dalla voce straordinariamente simile a quella di Fabrizio, formammo un duo con il quale per mesi interpretammo esclusivamente sue canzoni (e non posso dirvi dove e come), ma del fatto che mentre gli anni passavano lui, come un buon padre, dava davvero l’impressione di avvicinarsi a me, con canzoni sempre più vicine alle mie corde, e invece probabilmente ero io che, come ogni buon figlio, pian piano diventavo come mio padre.
Non so bene cosa voglio raccontarvi, miei cari 7 lettori e anche se non è il mio cantautore preferito non ho forse i mezzi per spiegarvi quanto io ci tenga a Fabrizio De Andrè. La prima volta che lo vidi in concerto fu una esperienza straordinaria, il Palazzo dello Sport, quello che adesso chiamano fastidiosamente Palaruffini, era gremito ben al di là di quella che ora è la capienza ufficiale, lui era in forma smagliante e regalava canzoni quasi come se gettasse fiori al passaggio di qualche celestiale fanciulla, di qualche mistico profeta. E parlava. A chi gli gridava che era il più grande rispondeva, schernendosi, che non era vero, diceva che tutti erano più bravi di lui. Uno gli gridò “De Gregori!”, “Sì, lui è più bravo di me” rispose, “Bennato!” “Sì, perfino lui”, “Venditti!” “Un altro più bravo di me”. Qualcuno gli gridò “Ti sbagli, ce ne è solo uno più bravo di te”, “Chi è?” domandò Fabrizio.
Non fu una cattiveria, no, è che da noi, a Torino, è quasi una leggenda, sappiate che nel 2010 venne a suonare al Palaisozaki e lo riempì di vecchi, giovani, ragazzi, bambini, c’era talmente tanta gente che, per un momento, lui stesso si spaventò “Ma quanti siete?” borbottò “cosa pretendete da questi quattro musicisti anziani?”, di conseguenza quando Fabrizio De Andrè domandò “Chi è più bravo di me?” qualcuno gli rispose “Francesco Guccini” e fu proprio allora che Fabrizio De Andrè si incazzò. Mandò a quel paese un po’ di gente a caso, e smise di scherzare con il pubblico. Durante quella esibizione, individuai, finalmente, la vera differenza tra i due, realizzai che Francesco era un animale da palcoscenico, e che là sopra, sul palcoscenico, era un indistruttibile guitto che teneva in mano il pubblico dominandolo completamente, mentre Fabrizio, oltre a essere probabilmente molto più indifeso, era interessato soprattutto a presentare ed eseguire al meglio i propri lavori, non certo a uno spettacolo di intrattenimento. Usava il concerto con lo spirito di un musicista classico o almeno jazz, non con l’approccio rock/folk di Guccini. Quel giorno capii che i due cantautori non erano per nulla in competizione tra loro e che potevano tranquillamente convivere nel mio cuore.
Non riesco a guardare questo DVD senza pensare che, ai tempi in cui lo stava registrando, Fabrizio aveva solo un anno di vita ancora così, mentre le bellissime canzoni di questo concerto scorrono fluide, una dolce tristezza avvolge tutto, perchè io, noi, sappiamo che da lì a poco saremmo diventati orfani del nostro padre musicale e anche di un amico molto riservato ma che, ogni volta che ci veniva a trovare, lo faceva tramite un’opera che cercava sempre di essere migliore della precedente, perchè di deluderci proprio non era capace e non sapeva offrirci altro che bellissimi gioielli. Potete riuscire a immaginare quello che avrebbe potuto ancora regalare al mondo, se non fosse morto prematuramente, se Dio gli avesse dato ancora degli anni, togliendoli magari a uno dei tanti bastardi che vediamo ogni santo giorno in televisione, nati esclusivamente per fare del male al prossimo?
Lo so voi avete iniziato a leggere sicuri che vi volessi parlare del DVD citato nel titolo e vi siete ritrovati immersi in una specie di delirio, sapete già, è vero, che le mie recensioni non sono molto ordinarie, ma questo è davvero troppo, stavolta ho proprio esagerato! Avete perfettamente ragione, è io non so bene cosa dirvi del DVD tranne che ci sono le canzoni di Anime Salve, alcune di Creuza de Ma, alcune de la Buona Novella e un po’ di classici, il tutto cantato con quella voce pazzesca. C’è anche una banda eccellente con Cristiano a fare la parte del leone e ogni cosa è perfetta, bellissima, indimenticabile. Chi sono io per permettermi di recensire un concerto di De Andrè? non posso e non ho il diritto di farlo, posso solo dirvi che se amate la musica dovete per forza vedere questo DVD, non ve ne pentirete.
God Bless You (…and forgive all of us)