Enrico Farnedi – Auguri Alberta

Se proprio devo dirvela tutta, quando mi dissero che sarei finito in galera, per poco non me la feci sotto.
Ozzy Osbourne
Voi non ci crederete ma anche io scrivo canzoni, o meglio lo facevo.
Ho cominciato alla tenera età di quattordici anni e, con qualche breve pausa qua e là, ho terminato tre lustri dopo, al ritmo di una nuova per settimana, più o meno. Avete fatto i conti vero? non spaventatevi ma il risultato finale è proprio quello lì, anche se la cifra non può che essere approssimativa, in sostanza potrei averne composte da un minimo di seicento a un massimo di ottocento. Le più vecchie le registrai su due o tre C90, accompagnato dalla fida Eko Ranger 12 e da un paio di Hohner Blues Harp, utilizzando il primo registratore portatile a cassette che arrivò in casa, un Philips modello “e chi se lo ricorda?”; ho ancora questi nastri, anche se è da alcuni decenni che, per mancanza di coraggio, non li ascolto più. Ho poi preso l’abitudine di annotarle su quaderni, bloc notes, fogli sparsi e, quando sono arrivati i computer, in quelli che credevo fossero indistruttibili documenti da salvare, per sempre, su differenti e sicuri supporti magnetici. Anche se è vero che alcune di queste creazioni le ho incise e quindi salvate, l’attuale situazione è desolante: la maggior parte dei quaderni li ho persi, così come, incredibile a dirsi, i file sugli hard disk; ho potuto recuperare qualcosa, è vero, però quasi sempre testi accompagnati da accordi che, senza l’aiuto di un pentagramma, non sempre sono riuscito ad associare a una melodia, a un riff. Se proprio debbo essere totalmente sincero, non è che la cosa mi abbia provocato un qualche particolare psicodramma interiore visto che se avevo smesso di scrivere un motivo decisamente valido c’era: mi ero semplicemente accorto che il mondo non aveva alcun bisogno delle mie canzoni e che non ne avevo bisogno neppure io poi, dal momento che per me suonare e comporre erano la medesima cosa, avevo anche smesso di suonare.
Per quasi venti anni.
Poi sapete com’è: la musica ti riprende sempre, anche se le tue mani non sono più elastiche come un tempo, se hai scordato tutta la tecnica e non hai alcuna voglia di recuperarla. Si può allontanare un uomo dalla musica ma non la musica da un uomo, tanto per dire una stronzata che potrebbe tranquillamente apparire sulla bocca di qualche politico nostrano dei giorni recenti.
Tutto questo non per vantarmi in qualche stralunata e autolesionistica via, che se le mie canzoni fossero state buone avrei fatto il musicista invece che il friggitore d’aria, e neppure per motivi misteriosamente autobiografici o per riempire lo spazio bianco nel vano tentativo di seguire, anche solo a tentoni, il sommo Lester Bangs, mio indiscusso idolo giornalistico-musicale, nel suo vorticare psichedelico di parole. Tutto questo per dirvi, cari i miei 7 lettori, che potrò anche essere irrimediabilmente svanito ma, almeno in questo caso, so di che cosa stiamo parlando: di qualcuno che mette insieme canzoni e dopo se le canta pure. Un cantautore. Un cantante autore. Un autore cantante.
Andando via sbattei forte la gamba contro un palo del tendone, ma non sentii dolore
Ronnie Wood
Purtroppo Enrico Farnedi essendo di Cesena non vive sul mare e appartiene alla categoria degli artisti tout-court quindi ci tocca accontentarci dei suoi dischi, almeno finchè non si trasferirà a Cesenatico, dove la storia potrebbe prendere tutta un’altra piega. E dunque Farnedi, suonatore di trombe, cornette e flicorni per i migliori artisti nazionali e internazionali, jazzista tradizionalista e quindi, in mezzo a tanti jazzisti spanati, assolutamente d’avanguardia, alcuni anni fa si scoprì cantautore e nell’umido della sua cantina registrò un album dall’eloquente titolo Ho lasciato tutto acceso, contenente quindici canzoni strepitose. Usò strumenti musicali e no, pentole, bicchieri e sottobicchieri, trombe, tastiere e batterie giocattolo, ukulele (da qui l’appellativo che spesso lo accompagna suo malgrado di Eroe dell’ukulele) e tutto quanto fosse in grado di produrre musica, quasi fosse un moderno Tony Esposito non vincolato esclusivamente all’universo ritmico. Ho lasciato tutto acceso è un album che se fosse stato inciso da uno di quegli artisti che popolano quello che oggi viene definito mainstream, avrebbe incassato milioni e milioni di dollari, euro e palanche varie. Invece è uscito nel circuito underground e ha incassato quello che ha incassato. Se tu che leggi non lo hai comprato è solo perchè sei uno stolto: pentiti e poni rimedio al tuo orrido peccare acquistandone almeno una copia per ogni membro della tua famiglia e due per gli amici.
Dopo l’uscita di cotanto album l’Enrico, accompagnato dal solito ukulele e qualche pupazzo di gomma, ha attraversato lo stivale in lungo e in largo per farlo conoscere. Suona oggi, suona domani, quattro o cinque anni se ne sono andati quasi senza accorgersene e tutto a un tratto ha sentito il bisogno di mettere la firma su un nuovo progetto, intitolato, incautamente Auguri Alberta.
Nello stesso momento, all’interno, solitamente noi finivamo in una rissa da bar.
Slash
Ho ascoltato la prima volta Auguri Alberta un po’ di tempo fa con accanto una matita bicolore rosso/blu e un foglio (come fanno i critici veri, anche se loro preferiscono di gran lunga i Moleskine e le stilografiche ricevute in dono da personaggi ultraterreni), oggi ho miracolosamente recuperato il foglio e ho scoperto che sopra c’erano scritti soltanto i nomi di quattro artisti: in blu Bob Dylan, Finardi e De Simone, in rosso Canned Heat.
Francamente non so che cosa mi passasse per la testa mentre me ne stavo a sentire il disco prendendo questi bizzarri appunti, probabilmente fumi provenienti da roba non troppo diversa dal Lambrusco di Sorbara e se l’annotazione sui due cantautori è anche comprensibile in quanto fanno lo stesso lavoro del Farnedi, se perfino il Maestro si può giustificare essendo, come il Farnedi, musicista di formazione accademica tentato dall’avventura canzone, con i Canned Heat non c’è via d’uscita: non hanno nulla da spartire con il nostro eroe. Loro erano puristi del blues elettrico capaci di accompagnarsi a tipacci poco raccomandabili, nuotare in un mare di droga e, almeno per quel che concerne Alan Wilson e Bob Hite, di morire stupidamente e giovani. Farnedi è l’esatto opposto, non solo gode di ottima salute ma si accompagna anche a musicisti di gran livello che, quando vogliono strafare e mettere in mostra il loro lato più selvaggio e oscuro ordinano in due una pizza aggiuntiva ai peperoni e alla cassa discutono sul prezzo del limoncello. Tutta gente con la testa sulle spalle, che ha fatto della musica la propria ragione di vita e non ha tempo da perdere con le stronzate. Però i Canned Heat li avevo scritti in rosso invece che in blu e questo sicuramente a causa di un qualche parallelismo ove i vari elementi dell’uno negavano quelli dell’altro oppure, molto più pragmaticamente, era solo per ricordarmi che da quando ho venduto il 99% degli LP, la band di Los Angeles è vergognosamente, e da troppo tempo, assente dai miei porta CD Ikea.
E torniamo alla mitologia, che per esserci c’è, non dico di no
Francesco Guccini
Quando i discografici andarono da Bob Dylan a chiedergli il titolo definitivo di quella canzone che tutti chiamavano Everybody must get stoned lui, serafico, rispose Rainy Day Women #12 & 35 che con il testo non c’entrava un accidente di niente e, come se non bastasse, non era neppure la prima volta che disorientava così discografici, pubblico e fauna collegata. Questo perchè testi e intestazioni fan parte della poetica di un cantautore se non addirittura della sua poesia e chiederne il significato può essere anche legittimo, per carità, ma è così banale da sfiorare la volgarità perciò mi scuserete, cari i miei 7 lettori, se non provo a scovare il recondito significato di un titolo come Auguri Alberta, d’altra parte non l’ho fatto neppure per Rubber Soul, Revolver e Brain Salad Surgery quindi potete tuttalpiù accusarmi di incompetenza, non di sguazzare in quel certo revisionismo deteriore e di bassa lega, o rovescismo, che vede alcuni intellettualoidi della domenica pomeriggio dichiarare che è fico fare quel che altri intellettualoidi della domenica mattina dicono che è sbagliato fare e cioè guardare le partite di calcio, Sanremo, trattar male la fidanzata, domandare il senso del nome di un CD, prenderselo in quel posto. Io le correnti di pensiero modaiole le ho sempre detestate, ancor più le controcorrenti e, se a portare avanti quest’etica da discarica pubblica son coglioni senza arte né parte, son sempre felice di condire la mia opinione di stigmatizzabile ma sano disprezzo. Per quel che riguarda la sfera dei cazzi propri, ognuno pensi per sé che è molto meglio per tutti.
Quando fai un disco, di fatto, cerchi un modo per distorcere le cose
Keith Richards
Attenzione però, che se in Auguri Alberta sperate di ritrovare quel bricolage musicale ch’era l’anima e la forza di Ho lasciato tutto acceso, cascate male: qui abbiamo una numerosa band di eccellenti professionisti che dà corpo alle canzoni con un sound spesso e carico, una cosa moderna e molto professionale che però non copre la scrittura di Enrico, che è sempre quella solita e neppure la voce, che forse è l’elemento suo più caratteristico, così spigolosa eppure educata, non virtuosistica ma senza pecca alcuna. Una voce che se fosse un pelino meno originale renderebbe più semplice incasellare il suo proprietario in qualche tranquillazzante categoria per servirsene alla bisogna, purtroppo per i critici che son costretti a sbagliare sempre e comunque, a dispetto delle intenzioni, la voce di cui parliamo, ben dotata di angoli acuminati contiene, forse proveniente dal diaframma forse dalla pancia, un sospiro felliniano che confonde tutto, un anima trasparente da Casadei decaduto capace di velare ogni cosa con una leggerissima nebbia di nostalgia, anche i ritmi più allegri, quasi dietro ogni frase cantata, dietro ogni rima, ci sia, ben nascosta una Gelsomina in attesa del suo Zampanò. E’ il discorso sulla Romagna che facciamo sempre, no? se si ha la fortuna di avere delle radici allora vengono fuori di continuo anche quando non son richieste e questo permette sempre di regalare qualcosa di nuovo agli ascoltatori, anche quando non se lo meritano.
Non avevo mai cantato in uno studio senza prima essermi fatto un drink
Rod Stewart
Spiegatemi allora che cosa posso raccontarvi io di questo disco che voi non possiate immediatamente capire meglio di me, semplicemente ascoltandolo? Potrei dirvi quali sono le canzoni che preferisco, ma questo influenzerebbe il vostro giudizio e non vedo la ragione di farlo, potrei sparare due o tre battute spiritose per nascondere il fatto che sono un idiota, sport nel quale campioneggiano la gran parte degli pseudocommentatori musicali come me e dai quali vorrei disperatamente distinguermi. Invece dovete accontentarvi di sapere che Enrico Farnedi è un musicista di altissima qualità che non saprebbe offrirvi qualcosa di scadente neppure se lo volesse fortemente, che Auguri Alberta è tra i migliori dischi che vi capiterà di ascoltare quest’anno, l’anno prossimo e l’anno seguente ancora (oltre non mi spingo che non ho la necessaria forza) e che se proprio volete conoscere tutto, se cercate sapienza e preparazione, se volete una analisi approfondita di ogni traccia, se vi interessano tutti i dettagli, anche quelli più piccoli e insignificanti allora dovete contattare qualcuno bravo: qui purtroppo mancano le necessarie diottrie e la musica ci piace ascoltarla, per dissezionarla e analizzarla scientificamente conviene rivolgersi ai medici dell’obitorio.