Con te sulla spiaggia
Gli anni ’60 e anche una parte degli anni ’70, sono stati facili prede delle canzoni che parlavano di vacanze e, di conseguenza, di spiaggia e di mare, che spostare l’attenzione sulla mezza montagna o sui laghi era un pochino più complicato a livello di storie da raccontare e forse anche di rime da trovare.
Con te sulla spiaggia, cantata da Nico Fidenco e datata 1964, fu certamente una delle prime e comunque la prima che io ascoltai. Il testo era “moderno”, per certi versi anche spregidicato e in qualche modo innovativo, anche se il cantato risentiva ancora dello stile melodico italiano in voga nel decennio precedente, ma soprattutto fotografava un costume che il boom economico impose agli italiani e che durò almeno per tutto il ventennio a venire: le vacanze al mare. Non sto parlando di quelle che voi fate adesso, cari i miei 7 lettori, quando prenotate due settimane a Gabicce con l’ombrellone e l’animazione serale, sto parlando di un paese prevalentemente agricolo che veniva da cento anni di guerre, delle quali le ultime due mondiali, un paese che aveva lasciato decadere il suo sud costringendo milioni di persone a una drammatica emigrarazione verso il resto del mondo e che quando si era industrializzato aveva costruito le fabbriche al nord, spingendo la gente del mezzogiorno a un ennesimo esodo, questa volta interno. Sto parlando di un paese che affrontava il cambiamento e la nuova era che mangiadischi e utilitarie annunciavano, senza alcuna preparazione, improvvisando esattamente come fa adesso. Nelle case degli italiani ormai industrializzati arrivarono il frigorifero e la televisione, mentre accanto ai marciapiedi li attendevano, ben parcheggiate e lavate, vetturette nuove di zecca capaci di portarli ovunque volessero a poco prezzo, considerando il basso costo della benzina. E così, inaspettate come da copione, un bel giorno si palesarono le ferie al mare in agosto.
In principio si trattò di vacanze rigorosamente famigliari che cominciavano in inverno, con la spasmodica ricerca di un appartamento dalle parti di Rimini (alberghi e pensioni erano visti con sospetto e considerate, almeno al principio, roba da ricchi). Veniva poi il rito della preparazione delle valige, la partenza notturna per chi viaggiava in auto e il carnaio del treno per chi l’auto non poteva permettersela e doveva lottare per un posto nello scompartimento con chi ancora non aveva scoperto le vacanze al mare e ad agosto tornava al paesello natio. Una volta arrivata a Rimini(o località affine) la famiglia si sistemava nell’alloggiamento prescelto e cercava di riprendere le solite abitudini ai soliti orari, appena ritoccate dagli scatti istituzionali con la Kodak Instamatic, dal bagno mattutino e da quello al tardo pomeriggio con relativa sosta sotto l’ombrellone che spingeva a litigare con bambini, genitori e giovinastri rompiballe, sosta che non si poteva evitare poichè quel metro di spiaggia sul quale vegliava una bella coppia di sedie a sdraio e un ombrellone che non riparava dal sole, lo si era pagato profumatamente e occorreva difenderlo con le unghie e con i denti. A volte le famiglie stabilivano rapporti, e organizzavano pranzi, con altre famiglie conosciute sul posto, rapporti che inevitabilmente venivano troncati al ritorno verso la vita di tutti i giorni, salvo poi essere riallaciati l’anno seguente, in caso di reicontro per le immancabili vacanze d’agosto.
E poi accadde l’inevitabile: le vacanze al mare individuali che, è meglio sottolinearlo, non erano proprio individuali ma più che altro di gruppo con uno o più amici. Furono i bambini maschi (le femmine arrivarono un po’ più tardi) che al principio del decennio si erano formati con la dura scuola delle vacanze famigliari sulla spiaggia infuocata, che si coalizzarono per svincolarsi dal controllo dei genitori e potere battere la spiaggia liberamente in cerca di fanciulle da insidiare. Molte canzoni sono state scritte su questo costume e io stesso conosco diverse coppie che si sono conosciute al mare e che poi hanno formato belle famiglie ma, sostanzialmente, si trattava di un momento nella vita di un giovane, particolarmente squallido: bisognava mettere da parte i soldi per tutto l’anno perchè una volta arrivati a Rimini (o località affine), era d’obbligo interpretare la parte del divertente rampollo di facoltosa famiglia che spendeva e spandeva danaro con estrema classe e noncuranza. C’era poi la patetica ricerca di ragazze da conquistare, ricerca nella quale si doveva vincere la concorrenza non solo di altri sfigatelli venuti da lontano ma quella ben più minacciosa dei ragazzi autoctoni, abbronzati, palestrati e sguinzagliati sul campo per adescare le ignare turiste e trasferirle a un tavolino del bar o del ristorante di famiglia. Intere generazioni di italiani hanno buttato via denaro e si sono resi ridicoli, in omaggio a un epoca che cambiava velocemente senza dar modo di farsi comprendere, sulle amene spiagge romagnole e del resto d’Italia.
La mia famiglia in agosto tornava al paese e quando infine fu attratta dalle vacanze nelle località balneari io ero già grandicello e ci rimasi invischiato poche volte. Quando capitò superai il tutto per mezzo di molti libri, molti concerti e parecchie passeggiate ma nonostante non ne avessi alcuna voglia fui quasi obbligato a conoscere persone e luoghi che si sono impressi nei miei ricordi e che, confondendosi negli anni, ora mi fanno sorridere di nostalgia e tenerezza malgrado l’evidente superficialità e quel doversi divertire a tutti i costi che, allora come oggi, caratterizzava in negativo ogni dannata situazione. Il ritrovo mattutino ai bagni Arlecchino, l’essere considerato diverso dagli altri per via di quel volume di Steinbeck che mi portavo appresso e che leggevo mentre loro sparavano cazzate e bevevano aranciata ghiacciata, i saluti tristi e l’inutile promessa di telefonarsi, il darsi appuntamento per l’anno seguente ben sapendo che quasi sicuramente sarebbe stato un appuntamento mancato. Io stavo ai margini di quel mondo che ritenevo superficiale e inutile ma forse lo facevo perchè non avevo capito nulla, altrimenti non si spiegano le tinte pastello con le quali lo rammento, quel cielo blu cobalto che in natura nemmeno esiste, quella volta che seduto sul muretto rimirando il mare neppure mi accorsi del temporale e me ne restavo lì, imbambolato a inzupparmi guardando l’acqua che cadeva fondersi con quella che l’accoglieva e quella ragazza francese che, accorrendo a salvarmi con un ombrello, mi disse ridendo, in perfetto italiano velato da quell’adorabile accento a base di erre moscia che contraddistingue la gente d’oltralpe: “Sai, in fondo saresti anche carino, però sei strano forte”.
Credo fosse il ’75, la canzone di Nico Fidenco non la ricordava più nessuno, il boom economico era un argomento come tanti dei dibattiti nelle assemblee aziendali, scolastiche o di partito e io non ero strano, ero da un’altra parte.