Come ho intervistato Enrico Farnedi e sono riuscito a uscirne sveglio (i famosi nani della morte erano nei paraggi)

Nel marzo del 1975 uscì su Creem uno scritto intitolato E ora rendiamo lode ai famosi Nani Della Morte ovvero: Come mi sono scontrato con Lou Reed e sono riuscito a restare sveglio firmato da Lester Bangs. Si trattava del resoconto di un incontro tra il giornalista e uno dei suoi idoli, Lou Reed, incontro tutt’altro che amichevole o compiacente, come si usa ai nostri giorni e che diede origine a uno dei più famosi articoli del giornalismo musicale d’ogni epoca e latitudine (la longitudine no, almeno finchè qualcuno non mi spiega che cos’è). Quel che state per leggere non è una parodia ma un sentito, anche se goffo, omaggio a quella intervista di oltre quaranta anni fa con il prestigioso contributo di Enrico Farnedi nel ruolo che fu del compianto cantante newyorkese.
Enrico Farnedi è il mio eroe, lo è diventato nell’estate di qualche anno fa quando mi capitò di ascoltare il suo terzo disco solista Ho lasciato tutto acceso e di rimanerne completamente conquistato. A dire il vero mi erano piaciuti anche i due precedenti Ho il maglione a rovescio del 2005 e La cravatta a pois del 2007 e non ho mai davvero capito del tutto le ragioni per le quali la critica ufficiale li ignorò quasi completamente. La Canzone dei Totani, tratta dal secondo lavoro l’ho poi sempre considerata un piccolo gioiellino e non passa giorno che non la canticchi almeno una volta per la gioia dei vicini, gioia che viene particolarmente sollecitata soprattutto nel mentre che eseguo quelle famose due parti in falsetto. Ho lasciato tutto acceso, nel panorama musicale italiano fu qualcosa di davvero unico, un vero e proprio manifesto sul concetto del fare musica, al centro del quale c’era la musica stessa che sceglieva di essere sparsa al mondo in un qualunque modo possibile e immaginabile e non seguendo le solite e sbiadite tracce lasciate da esperienze precedenti o da tizi coi baffi. Era inoltre ben evidente la sfida insita nell’eleggere a propria ascia di guerra l’ukulele, uno strumentino con molti limiti ma dotato della straordinaria capacità di caratterizzare in modo spesso eccessivo chi lo suona, fino a renderlo una propria appendice e non viceversa. Un aggeggino a quattro corde in grado anche, se non usato propriamente, di sfarinare i maroni degli astanti con protervia ed estrema facilità. Farnedi è stato capace di tenere a bada la piccola bestia, di domarla e di asservirla alla propria musica proprio come dovrebbero fare tutti coloro che si considerano artisti e che invece non lo sono manco per niente. Lo straordinario successo del disco è ancora nella mente dell’intero paese, non serve ricordarlo, ogni singolo appassionato di musica, alla sua uscita, capì di trovarsi agli albori di una nuova era, si sentiva elettrizzato e curioso come mai era stato prima. Enrico Farnedi era il nostro faro, la guida che aspettavamo da tempi immemorabili. Un profeta.
Dopo tutto questo cosa diavolo gli è saltato in mente di fare un disco come Auguri Alberta, aiutato da un gruppo convenzionale, con arrangiamenti convenzionali, strumenti convenzionali e tutto quanto convenzionale? è vero, ogni musicista dovrebbe sempre cambiare e rinnovarsi, come dimostrò Bob Dylan con il suo Self Portrait ma, come a sua volta gli dimostrò Greil Marcus nella più famosa critica musicale della storia, a tutto c’è un limite. Nel caso di Farnedi praticamente si sfiora il masochismo e, attenzione, come avrete certamente notato non sto certo parlando delle canzoni contenute in Auguri Alberta: quelle sono belle, nessuno lo mette in dubbio, alcune sono talmente riuscite da entrarti in testa senza alcuna intenzione di andarsene in tempi brevi. E non sto nemmeno parlando dei musicisti coinvolti nel progetto, tutti quanti professionisti creativi e di alto livello. Infine non sto neanche parlando degli arrangiamenti, mai ridondanti e spesso vicini alla genialità. Sto parlando di un atteggiamento mentale e del fatto che Enrico Farnedi si è probabilmente fritto il cervello durante un qualunque pomeriggio tra il 2012 e il 2013, sicuramente a causa delle troppe bollicine contenute nelle schifezze che beve.
C’erano già state delle avvisaglie a dir la verità, risalenti addirittura alle sue prime esperienze come costumista dei Citrons, uno dei peggiori gruppi ska che la storia ricordi e perfino durante l’allegra tournée come ballerino capelluto con l’opera rock I Nasi di Jonathan, che anno era? il ’94? il ’95? il fatto è che con il primo e omonimo disco dei Grizzled Velvet datato 1999, la controversa personalità del nostro venne prepotentemente a galla e non ci fu più modo di farla ritornare sul fondo dove viveva con tutti gli agi consentiti dalla sua instabile e precaria condizione. Qualcuno tirò in ballo questioni etiche, morali o anche solo di buon senso, ma si trattava soprattutto di dicerie mai confermate da nessuna delle parti coinvolte nella vicenda e che non verranno certo ripetute qui anche se, ne converrete, il concerto del dicembre ’99 a Viareggio, con tutto quello che capitò dietro ma soprattutto davanti le quinte, insieme al trambusto mediatico che ne derivò, dovrebbe farci riflettere seriamente e trarre le doverose conclusioni, magari amare ma quantomeno rivelatrici della realtà. Stiamo parlando di un noto depravato, mica di una suorina domenicale che ha sbagliato con lo zucchero nel caffelatte!
Sono convinto che la chiave di volta di tutto il nostro discorso nonchè il mezzo per meglio capire il Farnedi uomo e pervertito, allo scopo non secondario di farsi una approssimativa idea di dove si trovi in questo momento il Farnedi artista, stia nella ghost track di Ho lasciato tutto acceso, Canzuncella a Marechiaro. Chi altri avrebbe mai avuto il coraggio di prendere una struggente melodia settecentesca napoletana, destrutturarla con ferocia e riassemblarla in forma di jingle scassapalle? un colpo di genio, un’intuizione sublime. E’ al contrario la ghost track di Auguri Alberta, Silenzio Assordante, a lasciare sconcertati, e se non vi è mai capitato di trovarla, sul disco, vi consiglio di non cercarla perchè vi costringerà a mettere in discussione tutto quel che credevate di avere imparato sulla musica leggera e di darvi al giardinaggio d’altura: l’assolo di maranzana rieccheggiante la Cavalcata delle Valchirie è troppo per chiunque, credetemi sulla parola. Così ci rimane solo un fatto chiaro e inoppugnabile e cioè che il Farnedi si è bevuto gran parte della materia grigia funzionante, d’altra parte a soffiare sempre nella tromba prima o poi qualcosa da dentro finisce fuori, e non sempre è saliva. Enrico Farnedi è il mio idolo, lo sapete, ma questo non vuol certo dire che mi piaccia o che, come avvenne in quel burrascoso pomeriggio nella primavera del 2014, debba sopportare tutte le sue stronzate. In fondo si tratta sempre del solito trombettista che ben conosciamo, quello che nel ’92 guidò per ore a fari spenti nella notte, in un autoscontro di Cesenatico, per vedere se poi è tanto difficile morire, quello che da giovane baccagliava le ragazze vestendosi da orrido pennuto e, per carità, non rivanghiamo l’increscioso episodio del travestito di Pesaro scambiato per un tecnico audio durante l’esibizione live alla Fossa di Caronte, nel 2014, che anche io ho dei limiti e di certe cose proprio non mi va di parlare. Lo sapete, preferisco limitarmi alla musica e quindi ad annunciarvi l’uscita a giorni dell quinto album solista del musicista cesenate che si intitolerà La Canna del Gas e del quale ho potuto ascoltarne sostanziose anticipazioni senza sbadigliare neppure una volta. Un bel vantaggio.
La nana va a prendere una limonata al bancone e gliela porta facendo mille salamelecchi. Dopo averlo aspettato per sei ore in questo fetido night sulla via Emilia, in compagnia del mio vecchio registratore a nastro, mi sarei aspettato anch’io una limonata, magari come doveroso risarcimento, ma Enrico è così, da quando è tornato da New York si è convinto di essere Andy Warhol.
“Non sei Andy Warhol” sbotto all’improvviso “sei un trombettista sovrappeso“. Credo che una gazzosa sarebbe anche andata bene oppure della semplice e ghiacciata acqua gasata. Ci rifletto ancora un attimo, tanto lui è lì che sguazza nella limonata come un delfino al parco acquatico. “Chi cazzo è questa nana?” sibilo. Nessuna risposta. Oltretutto pensa che non sappia che è stato a Gatteo Mare con l’Ape di Michele, e non a New York. “Sei stato a Gatteo Mare, me l’ha detto Michele, sei solo un banale banfone, altrochè“.
A questo punto Farnedi si scuote e, fissandomi con malcelato odio, fa una pernacchia e ammicca alla nana.
Non ho nemmeno le mie pastiglie, mannaggia. Lui le ha ma non me le darebbe mai. “E’ questione di priorità” spiegherebbe “e tu ne hai di differenti da noi persone sagge o anche solo vicine alla normalità”
Però la nana, fattasi assai più vicina, mi sussurra all’orecchio: “Il maestro Farnedi è momentaneamente in sovrappeso ma, si fidi, prima dell’alba perderà sicuramente tutti i chili di troppo“.
Chi cazzo è questa nana? mi sto davvero stufando e glielo dico, ma lui vuole parlare di politica e me la mena sulla riforma sanitaria americana mentre il mio stomaco brontola e fa le bizze, domandando a sua volta una riforma sanitaria tutta sua, decisamente più urgente di quella statunitense.
“Sei pieno di te come un uovo” provoco “e cerchi soltanto di non affrontare l’argomento cruciale. Perchè non ti metti buono e rispondi seriamente alle domande in modo da concludere questa cazzo di intervista e ritornarcene a riveder le stelle in santa pace?”
Mi fa un cenno a significare che posso procedere, ma io debbo aver perso il blocchetto degli appunti in qualche sterrato dalle parti di Forlì, così sparo la prima stupidaggine che mi viene in mente: “Come mai son passati cinque anni tra il tuo disco precedente, Ho lasciato tutto acceso, e questo nuovo, Auguri Alberta?”
“Vorrei trovare ragioni più articolate, ma la verità è che sono molto lento e spesso anche pigro. Per scrivere canzoni è molto importante oziare e lasciarle maturare”
E’ ridicolo. Tutti sanno che l’ozio è il padre dei vizi e che chi dorme non piglia pesci quindi, a meno che da qualche parte ci sia un ghost writer che gli scrive le canzoni mentre lui dorme, il sospetto è che mi stia prendendo per il culo. Sospiro e penso: “Io mi faccio una piadina“, anzi credo di averlo detto ad alta voce perchè lui, con un sorriso sardonico, replica: “Ma che ne sai tu delle piadine, che sei di Torino?“.
Sullo sfondo appare un ballerino con la panza, alto non più di un metro e trenta con cappello a tre punte e infradito.
Perdo la pazienza definitivamente: “Allora per capire se un pizza è buona devi essere residente a Napoli?“. Dovrebbe ammettere di aver detto una stronzata e invece mima, da seduto, i passi dell’orrido danzatore che avendo perso un sandalo prova pateticamente a continuare la sua coreografia zoppicando maldestramente. Oppure è proprio zoppo di suo e la cosa che stiamo facendo qui assume rapidamente contorni drammaticamente felliniani.
Provo a continuare con l’intervista: “Ho lasciato tutto acceso era dirompente non solo per le canzoni ma anche per l’originalità degli arrangiamenti quasi completamente in solitaria e con l’ausilio di strumenti a volte di fortuna o di oggetti usati per far musica, l’approccio di “Auguri Alberta” invece è totalmente opposto e vede all’opera una vera e numerosa banda con un risultato finale che è ovviamente differente e se vogliamo meno originale, o più normale, all’orecchio dell’ascoltatore. Ne vuoi parlare?”
Entusiasmandosi sempre di più per lo squallido balletto sullo sfondo, mi risponde a malapena:”Le canzoni del primo album non erano state scritte e registrate pensando alla pubblicazione, mentre quelle di Auguri Alberta sì, e questo si sente. In entrambi i casi, però, ho fatto quello che credevo avrebbe reso migliore la canzone, cercando di non farmi influenzare da considerazioni che non fossero legate a quello che avrei voluto sentire io in macchina a volume alto”
Volume alto? questo adesso si è convinto di essere un Pete Townshend ukulelato e sta svalvolando di brutto. Intanto arriva la mia piadina, su un vassoio lercio trascinato, più che portato, dalla nana vestita per l’occasione da cameriera. Non faccio in tempo a dare un morso al mio agognato pasto che mi apostrofa con un sogghigno: “Ma guardalo e neanche sai che quelli giusti mangiano il crescione”
“Con lo Squaquerone?”
“Non direi mai a nessuno di mettere lo squaquerone nel crescione, si cuocerebbe e farebbe schifo”
“E cosa ci metteresti?”
“Nel crescione ci metterei erbe e salsiccia o zucca e patate”
“Io ci metterei pomodoro e mozzarella”
“Pomodoro e mozzarella no, che è da bambini”
“Parla di infantilismo proprio quello che ha la casa piena di pupazzetti di gomma. E ricorda anche che la piadina che mangiate a Cesena la impastano in Cina”
Si è innervosito e quasto ha convinto la nana a sparire di nuovo. Con sguardo annoiato mormora: “Fammi queste dannate domande così la facciamo finita e ti togli dai piedi”
Togliermi dai piedi è una idea fantastica, anche perchè in televisione c’è Raffaella Carrà e non me la perderei per nulla al mondo. Tiro fuori il Moleskine, che ho magicamente ritrovato proprio in tasca, e leggo la prima domanda che mi sono appuntato: “Cosa si prova nel dare una propria canzone a una banda e a vederla lentamente mutare in qualcosa che magari non si era preventivato?”
Allarga le braccia come se fosse una delle solite domande che i soliti giornalisti da quattro soldi, o aspiranti tali, gli fanno durante le solite interviste di routine e invece no, nessuno gli fa domande come questa. Siamo talmente abituati alla stupidità che quando non ci taglia la strada ci rimaniamo addirittura male. Risponde in una specie di sospiro:
“Di solito immagino una canzone in ogni suo dettaglio, dal giro di basso, al suono delle tastiere fino ai passaggi di batteria, ma poi quando si realizza insieme ognuno aggiunge qualcosa e di solito il risultato è migliore di quello che potevo immaginare io. Molto bello, direi”
Siamo in un night e, a parte la nana, non si è ancora vista l’ombra di una entreneuse, e già questo è strano, il fatto poi che al posto del pianoforte e del crooner ci sia un tizio con cappellino bianco e grembiule unto che vende piadine e crescione la dice lunga sui posti e sulla gente che frequenta il Farnedi. Sto quasi per alzarmi e andar via e invece tanto per far vedere che ho ascoltato il CD e che quindi sono una persona seria continuo questa specie di intervista.
“Rispetto al disco precedente in Auguri Alberta c’è, se non altro immediatamente riconoscibile, un uso più massiccio di trombe e affini, uso che io approvo totalmente, è stata una scelta ponderata o un risultato inaspettato?”
A questo punto mi guarda addirittura di traverso, fa un impercettibile gesto al danzatore panzuto, che subito esegue una piroetta, e poi si appisola beatamente. Ne approfitto per sputargli nella limonata mentre nessuno mi guarda.
Improvvisamente si ridesta, urla il nome di un certo Gaspare insieme a frasi incomprensibili che contengono riferimenti alla danza del ventre e a qualche debito di gioco, quindi riprende la conversazione come se nulla fosse: “Come dicevo prima, se nel disco c’è qualcosa è perché io, o il produttore Francesco Giampaoli, o qualcuno dei musicisti a un certo punto ne abbiamo sentito l’esigenza. Non abbiamo mai fatto qualcosa per il gusto di farla, ma solo perché ci sembrava la cosa migliore da fare. In qualche modo direi che sono state tutte scelte obbligate. Ogni tanto c’è chi mi dice “perché non suoni di più la tromba?”, ma se lo facessi solo per farne sentire il suono suonerebbe fasulla, prima di tutto alle mie orecchie”
“Quindi hai fatto questo disco non in modo creativo ma come se stessi costruendo un dannato comodino? lo sai che sei proprio un coglione?”
“Detto da un cazzone come te è un complimento” dice, poi sorseggia ancora la limonata “ma ci hai sputato dentro?” chiede sospettoso.
“E se anche fosse? pensi non sappia che a Courmayeur hai pisciato nel mio thermos?”
“Quello era piscio d’artista, ha tutto un valore aggiunto”
Improvvisamente riappare la nana in compagnia di una stangona alta almeno un metro e novantacinque che è sicuramente una donna anche se ha il pizzetto e si fa chiamare Nunzio. Nunzio si getta ai piedi del Farnedi, baciandogli la mano, chiamandolo Eroe/Re dell’Ukulele, Polistrumentista Supremo e gran visir, spiegandogli quanto appare figo anche con sedici chili di lardo che gli debordano dalla cintura dei pantaloni e con, tra gli incisivi, un avanzo della finocchiona mangiata la sera precedente. Non riesco a trattenermi e le sferro un grosso calcio che, a causa dell’eccessiva distanza da terra del suo sedere, va clamorosamente a vuoto. Però perdo una scarpa, di quelle inglesi con la punta ferrata, che finisce in testa al danzatore obeso che si affloscia come un rivoltante burattino. Almeno questa è finita bene.
Non faccio caso al monocolo che è apparso sull’occhio sinistro dell’insopportabile gagà dell’ukulele e la butto lì: “Non per me, che ho cose più serie a cui pensare, ma per i critici d’oltremare, vuoi, una volta per tutte, definire il tuo genere? Anche in modo fantasioso o beffardo, se preferisci”
La domanda chiaramente gli piace perchè sorride in modo vagamente fastidioso: “Non saprei bene cosa dire. Non c’è uno stile preciso a cui tento di rifarmi o un artista a cui vorrei assomigliare. Di sicuro ci sono tutte le cose che ho ascoltato e che mi piacciono e qualcosa in più che sono io”
“Ma tu sei un coglione, come abbiamo appurato, quindi il tuo è un genere per coglioni?”
“Va bene” sospira “allora parlami, in modo corretto, degli intervalli nella musica e poi vediamo chi è il coglione”
“Gli intervalli sono il termine di paragone per stabilire la coglionaggine delle persone, adesso?”
“No, lo sono solo per te che pretendi di parlare di musica senza conoscerli”
Io lo so cosa sono gli intervalli, ma al momento la definizione precisa mi sfugge…deve essere colpa di quell’anguria malandrina che sta facendo il bello e il cattivo tempo nelle mie budella. Noto con piacere che la stangona se la sta prendendo con il ballerino obeso e per la prima volta mi rendo conto che Farnedi è vestito da astronauta. Il suo pessimo gusto nel vestire è cosa nota ai più ma vederlo cercare di bere la limonata con su una boccia da pesci in testa lascia veramente basiti. O forse no, forse sono ancora sotto l’effetto allucinogeno della peperonata dell’altro ieri e la realtà mi appare deformata a uso e consumo della limonata del cantautore cesenate. Debbo andare in bagno a rinfrescarmi così gli dò il microfono del registratore in mano sperando che tiri per le lunghe con la risposta: “Puoi parlare, nel dettaglio, dei musicisti che hanno suonato con te, se li hai selezionati o se si sono autoinvitati, se li hai congedati con un pagherò o se ti stanno ancora cercando per scucirti almeno un aperitivo?”
“Prima di tutto ci sono Marco Bovi e Mauro Gazzoni, i due terzi del mio trio dal 2010, ma con cui ci conosciamo da tantissimo tempo. Lungo la strada sono apparsi Riccardo Lolli e Lorenzo Gasperoni, che ho conosciuto negli ultimi anni grazie alle mie canzoni e che, insieme a Marco e Mauro, fanno parte anche della mia band live odierna. C’è Francesco Giampaoli che ha prodotto il disco da par suo. Infine, gli ospiti: le percussioni di Marco Zanotti, i sax di Marco Benny Pretolani e Francesco Valtieri, gli archi dei fratelli Gionata e Andrea Costa del Quintorigo, la voce e la concertina di Eloisa Atti, i cori di Caterina Arniani ed Estrema Riluttanza. Infine, Stefano W. Pasquini, che ha detto ma che stress avrai mai tu? Potrei magnificare le doti musicali e umane di tutte queste persone, ma diventerei prolisso. Sono amici, che è la cosa più importante…” a questo punto parto per la rinfrescata, poi passo dal bar per una orzata e infine, dopo almeno quaranta minuti, ritorno dal Farnedi che ancora parla nel microfono. Glielo levo dalle mani e lo guardo con commiserazione. “Lo sai che è appena scoppiata la terza guerra mondiale?” esclamo ma lui, imperterrito, continua nel suo delirio: “Il disco è stato registrato nello Studio Al mare, lo studio privato del produttore Francesco Giampaoli. Uno studio intimo, ma pieno zeppo di strumenti: chitarre, bassi, mandolini, tastiere, percussioni, amplificatori, effetti antiquati e così via. Molto divertente registrare lì. Ho suonato la batteria, il pianoforte, l’organo, la chitarra elettrica, la chitarra tenore, la chitarra baritono cigar box, il flauto dolce e forse altro che non ricordo. Resta da dire che Auguri Alberta vuol dire “in bocca al lupo”, che Alberta esiste e gode di ottima salute e che Chiara Benzi mi ha aiutato a scrivere quasi tutti i testi delle canzoni. Poi avrò dimenticato tante cose, ma spero nessuno si senta offeso.”
Ormai non lo ascolto più ma prendo appunti mentali sull’arredamento di questo schifoso night, nel caso volessi riammobiliare la mia tazza del cesso e noto con una certa apprensione che alcuni tizi, con indosso raccapriccianti giacche di lamè, stanno salendo sull’insicuro e piccolo palco tra gli applausi di tutti i presenti, escluso me che non ho alcuna voglia di compromettermi.
“A tutti i miei strumenti io dò un nome femminile, a parte l’amatissimo Hofner che si chiama Paul. Fai lo stesso con i tuoi? dì la verità, ci parli? ti rispondono?”
“Non ho dato nomi a nessuno strumento, e più che parlarci ci gioco. Alle volte stanno al gioco mentre altre mi fan diventare matto. Ma gli voglio bene, anche se ho dei preferiti, voglio bene a tutti. Comunque questa intervista è uno schifo, levati dai piedi che io mi vado a divertire” detto ciò, con un balzo artritico, raggiunge l’orchestrina che bene o male sta suonando, afferra un basso tuba e comincia a dar fastidio a tutti in modo platealmente molesto, finchè qualcuno lo caccia e lo rimanda mesto mesto dalle mie parti, pronto o quasi a continuare con il botta e risposta.
“Hai fatto una anteprima nazionale di Auguri Alberta, che ha avuto molto successo e che hai dovuto addirittura replicare, e replicare una anteprima non so nemmeno se sia possibile (come si chiama? secondprima? postprima?). E’ stato emozionante? vuoi rievocare l’evento in modo razionale e ringraziare come si deve chi ti ha aiutato?”
“Molto emozionante, un tutto esaurito che non immaginavo. C’è chi si è fatto più di 700km per essere lì. Suonare le canzoni con un gruppo di 8 musicisti più 4 ospiti è stata un’emozione irripetibile, e chi ascoltava mi ha raccontato di aver avuto la stessa emozione. Devo ringraziare l’associazione MicaPoco e Monogawa Entertainment che mi hanno aiutato per l’organizzazione, il locale della Vecchia Stazione per l’ospitalità e un sacco di volontari che si sono dati da fare per la riuscita del tutto. E inoltre, come sempre, ringrazio Chiara che mi sostiene, sprona e ha idee bellissime. (Come dice lei, idee geniali concepite da lei che poi però devo realizzare io da solo, ehehe)”
“Cazzo Enrico” mi viene spontaneo “ma ti rendi conto che stai diventando vecchio e lo stai facendo, come diceva Guccini, senza alcuna maturità?”
“Magari è un pregio” scherza lui “Un par di palle” ribatto io “la maturità non ha nulla a che vedere con il rimanere bambino dentro, la maturità è quella cosa che ti permette di non scottarti due volte sullo stesso fornello, si chiama anche esperienza oppure uso non improprio di quella cosa che sta nella testa. Ma con te sto perdendo le speranze. Dimmi, sei diventato quello che volevi diventare da bambino?”
“Direi di no, da bambino prima volevo essere disegnatore di fumetti, poi Dino Zoff e infine di nuovo disegnatore di fumetti. Tu invece so che volevi fare il tornitore, quindi probabilmente eri maturo fin da bambino, forse troppo maturo, probabilmente già bello marcio”
Non raccolgo le insinuazioni sui miei sogni fanciulleschi, inoltre volevo fare il fresatore, non certo il tornitore. “Auguri Alberta è esattamente il lavoro che volevi realizzare?”
“Ma che domande fai? sei come un cane che dovrebbe mordersi la coda e invece morde quella di un altro cane solo perchè è un coglionazzo. L’unico obiettivo che mi ero preposto era di fare un album estroverso, per cui direi che ci siamo riusciti. Tutto il resto è nato man mano, seguendo quest’unica direttiva. E’ così difficile da capire?”
“Ieri ho visto il concerto di un tizio che ti rubava tutti i riff e mi stavo seriamente incazzando, poi mi sono accorto che eri tu che tentavi di assomigliare a Mick Jagger senza neppure accorgerti di sembrare sua zia”
Vorrebbe ribattere ma la nana, premurosa, si avvicina per ricordargli che il giorno dopo deve andare all’ambulatorio per farsi le analisi e che è ora di andare a nanna. E’ visibilmente spazientito e scaglia furiosamente un ventaglio di quercia in direzione del palco, abbattendo il sassofonista. “Per fortuna debbo andarmene, pirla, altrimenti con tutto il latte alle ginocchia che mi hai fatto venire potevo farci il formaggio”
“Ancora un momento, cantautore dei miei stivali, sta arrivando una domanda molto anni ’70: cosa cerchi di esprimere con la tua musica?”
“Vorrei che la mia musica portasse chi la ascolta in luoghi nuovi”
Questa proprio è indimenticabile e mi scaravento da solo giù dalla poltrona, per il gran ridere.
“Cosa c’è di tanto divertente?” chiede perplesso.
“Niente, stavo pensando che un tizio potrebbe ascoltare una tua canzone e poi andare dallo sfasciacarrozze, che per lui è un posto nuovo. Oppure dalla manicure. Oppure dal rigattiere. O dal pizzicagnolo…”
“Ma allora sei spiritoso” replica acido “e io che pensavo fossi soltanto uno psicolabile odioso e semianalfabeta”
E’ davvero incazzato e si dirige, senza salutare, verso la porta, seguito da tutto il suo circo di nane, ballerini e stangone coi baffi. Solo che la porta in questione non è quella d’uscita ma conduce in cucina e come da copione, una volta che loro son dentro, dopo un indistinto vociare si riapre di scatto per un fuggi fuggi generale ove non si capisce chi è l’inseguito e chi l’inseguitore. Trascorso qualche minuto, quando le cose si calmano e mentre l’orchestra intona una sgangheratissima My Funny Valentine capace di far perdere la pazienza a interminabili schiere di santi, la nana mi raggiunge per un secondo proprio mentre sto cercando di sbrogliare il nastro del registratore che è finito nei rimasugli della limonata e, con una certa soddisfazione, mi sussurra all’orecchio: “Ha visto? come le avevo anticipato il maestro Farnedi ha già perso tutti i chili in eccesso. Eureka!”