Campo de’ Fiori
A me piace Lester Bangs, credo lo sappiano proprio tutti, non vorrei però che questa mia spontanea e non sollecitata affermazione vi spingesse a conclusioni affrettate che non hanno il minimo appoggio in quella decisamente trascurabile cosa che chiamiamo realtà: ho sempre apprezzato molto quel che scriveva Lester Bangs senza spingermi oltre. Non cerco di imitarne lo stile e neppure mi ispiro a lui per un qualche particolare approccio alla scrittura e questo per due banalissime ragioni che perfino voi, cari i miei 7 lettori, siete in grado di individuare al volo a condizione di fermarvi un piccolo secondo a riflettere, o anche solo a respirare:
- l’evidente nonchè plateale gap culturale che mi renderebbe inevitabilmente ridicolo in un eventuale e insano tentativo di emulazione.
- la divergenza culturale che, a differenza del gap, è purtroppo irrimediabilmente insanabile e mi riferisco al fatto che, trascurando il breve periodo del suo esordio che lo vide portabandiera di quella che potrei definire, dando se mai ce ne fosse ulteriore bisogno estrema prova di estrema ignoranza, scrittura improvvisata, Lester Bangs era un fine cesellatore di parole, avverbi, aggettivi e pronomi. Era uno che lavorava sul pezzo fino allo sfinimento, insomma, rileggendo e correggendo in continuazione, un novello Alessandro Manzoni dedito alla critica musicale e all’uso di sostanze di incerta provenienza. Io invece faccio fatica a rileggere una sola volta quello che scrivo e mi pare proprio che i miei articoli stiano lì a dimostrarlo nella loro ferma e splendente pochezza. Rileggo poco o niente non certo per sfacciata sicurezza nei miei mezzi che, me ne rendo tristemente conto, sono quello che sono, lo faccio proprio per pigrizia che già nel controllare la possibile presenza di refusi perdo interesse in quel che ho appena scritto e finisce che poi non lo pubblico più. Tempo fa, preso dal sacro fuoco dell’ispirazione e dalla frenesia, scrissi una sessantina di articoli in meno di una settimana, senza pubblicarli ma ripromettendomi di farlo dopo una breve rilettura a “mente fredda”. Sono ancora lì e probabilmente non vedranno mai la luce perchè, a mente fredda, il primo pensiero è stato “sessanta articoli? ma siamo impazziti? ma cosa mi ero bevuto?”
Quindi Lester Bangs mi piace e la faccenda finisce lì, se proprio vogliamo cercare qualche elemento in comune lo individuerei senza dubbio nelle divagazioni: a lui piaceva zigzagare tra le storie e le parole partendo da Frank Sinatra per finire con Boz Scaggs, passando per Ornette Coleman e con l’intento iniziale dichiarato di scrivere un elegia per i Ramones. Io più modestamente lo faccio più che altro per questione di arteriosclerosi e nella mancanza più totale di motivazioni artistiche. E’ vero, come lui anche io apprezzo lo sciroppo per la tosse, ma solo per curarmi dalla tosse, quindi non sono certo che questa, come similitudine, sia valida…
Perchè vi parlo di Lester Bangs? perchè lo faccio in modo così disordinato e dilettantesco? debbo confessarvi che non lo so con precisione, forse si tratta di una delle divagazioni di cui vi ho appena accennato, forse perchè nel 1974 aveva ancora circa otto anni da vivere, era nel pieno della sua carriera come critico, amato alla follia almeno dallo stesso numero di persone che lo odiavano con tutte le loro forze e mi sarebbe piaciuto sapere quel che poteva pensare di Quando verrà Natale, album di Antonello Venditti uscito appunto nel 1974. Probabilmente anche a voi non dispiacerebbe conoscere quel che il più grande critico rock di tutti i tempi avrebbe potuto pensare del disco di un cantautore italiano ma poichè questa fantasia rientra a pieno diritto nel gruppo di quelle più scioccamente inutili, essendo ormai impossibile realizzarla, vi toccherà accontentarvi della mia più umile e banale opinione: era un capolavoro. Anzi, probabilmente è stato uno dei più grandi dischi mai prodotti da un artista italiano di musica leggera, allo stesso livello di Creuza de Ma’ di Fabrizio De Andrè, per capirci.
Con Quando verrà Natale il cantautore romano scavalcò di un balzo tutti i cantanti solisti che all’epoca si definivano e venivano definiti Progressive, anche perchè Alan Sorrenti, considerato la massima espressione della corrente, dava ormai chiari segni di voler deviare dalla strada sperimentale che già da qualche anno seguiva. Quando verrà Natale ridefinì il genere avvicinandolo quel tanto che bastava alla musica leggera per renderlo accettabile dal maggior numero di persone possibile, proprio come aveva fatto lo stesso Sorrenti con Dicitanciello Vuje senza però riuscire a trasformarne il successo in un grandioso disegno organico Progressive, visto che la canzone era contenuta in un album sempre del 1974, intitolato semplicemente Alan Sorrenti, che pur essendo piuttosto bello parve più una raccolta di inediti che un progetto vero e proprio. Insomma, Quando verrà Natale è proprio un bel disco e vi consiglio sicuramente di ascoltarlo mentre, per quel che mi riguarda, vorrei finalmente dirvi qualcosa su Campo de’ Fiori, punta di diamante dell’album (oppure una delle punte di diamante) pregandovi di immaginare l’impatto che una canzone del genere poteva avere su un ragazzino come me, malsanamente dedito allo strimpellamento della chitarra, che nottetempo cercava maldestramente di comporre musica, tentando a volte perfino di accoppiarla a qualche bizzarro e inconcludente testo. Quello che mi colpì più di tutto fu il minuto e trenta secondi di introduzione strumentale e poi l’elastico tra gli accordi maggiori e quelli di quarta all’inizio delle strofe. Insomma, mi si aprì un intero universo fatto di musica e colori tendenti al cupo capaci di comporre immagini impreviste e toccanti. A quei tempi in Campo de’ Fiori, proprio dove fu giustiziato Giordano Bruno, si ritrovavano coloro che la città scacciava dai luoghi più alla moda, come piazza Navona o Trastevere o piazza di Spagna. A Campo de’ Fiori, a due passi dal magnifico Cinema Farnese, si potevano incontrare barboni di varia provenienza, diseredati, vagabondi, musicisti di strada particolarmente spiantati e gli ultimi hippie ancora resistenti alla modernità, a quella ideologia incombente chiamata Mancanza di Ideologie, alla cancellazione della speranza, al sogno di un elaboratore capace di pensare al posto dell’uomo.
Campo de’ Fiori è il posto che più amo di Roma, la canzone che più amo di Venditti.