Bruce
In un precedente articolo (consultabile qui) affermavo di non amare in modo particolare Bruce Springsteen senza dare spiegazioni troppo approfondite in merito. D’altra parte a volte non ci sono cause razionali alle quali risalire per rivelare l’origine dei gusti e delle preferenze che ci accompagnano nella vita: io detesto i fagiolini ma non lo so il perchè, semplicemente non riesco a mangiarli. Per quanto riguarda il cantante del New Jersey esistono però motivazioni abbastanza circostanziate e probabilmente anche più o meno valide che finalmente vi posso confessare, se avete sufficiente pazienza per sopportare la possibile imprecisione delle date o dei nomi delle riviste: è passato tanto tempo e la mia memoria è quella che è, già lo sapete.
L’anno era forse il 1973 e forse leggendo quella che era la mia rivista preferita, Ciao 2001, venni a conoscenza del fatto che Bruce Springsteen aveva appena fatto uscire il suo secondo album, The Wild, the Innocent & the E Street Shuffle giusto in tempo per domandarmi chi diavolo fosse Bruce Springsteen. L’articolo non diceva molto altro e mostrava solo la foto di un tizio con la barba e un cappello, probabilmente fatto all’uncinetto, calato sulla testa. Fu così che come spesso accadeva in quei casi mi misi alla ricerca e dopo un po addirittura trovai, perchè a quei tempi nei negozi di dischi di Torino, in alcuni negozi di dischi, potevi trovare davvero tutto quello che nel mondo veniva pubblicato. Se debbo essere sincero non ricordo se pescai l’album sopracitato oppure quello che lo precedette, Greetings from Asbury Park, N.J., e non ricordo neppure bene che impressione mi fece perchè come individuo ero ancora nel pieno dei miei privati lavori in corso e cambiavo idea su cose o persone ogni dieci/quindici secondi, fu perciò un nuovo articolo di Ciao 2001 a spiegarmi cosa dovevo pensare a proposito di tutta la faccenda. Ero un ragazzino ed è perfettamente comprensibile che potessi farmi influenzare dalle opinioni altrui, soprattutto quando queste opinioni erano abbastanza corrette e di conseguenza la nuova lettura mi fece comprendere che Bruce Springsteen era un artista Underground, anzi che era il Re dell’Underground. Pur senza capire bene il significato del termine riuscii però a inquadrare il musicista in modo abbastanza coerente, identificandolo come un Bob Dylan più stradaiolo ma anche più formale (o come un Gino Paoli più rock, fate voi), decisi che mi piaceva, andai a comprare l’album che mi mancava e due anni dopo, nel 1975, tutto il resto del mondo seguì il mio esempio: era uscito Born To Run, cavoli, e la voce di Bruce, al di là della band che lo sosteneva o della qualità delle canzoni, era maturata in modo inaudito. Nonostante il grande successo rimaneva sempre, sostanzialmente, un musicista underground o comunque continuava a fare le sue canzoni, che erano solo diventate più belle, cantandole sempre meglio e così arrivarono, nell’ordine, Darkness on the Edge of Town, The River e Nebraska, senza che la mia opinione mutasse. Dopo Nebraska successero però alcune cose alle mie tasche e fui costretto a vendere gran parte della preziosa collezione di dischi di cui andavo tanto fiero, compresi quelli di Springsteen, subito dopo fui distratto da altri impegni e per un po’ tralasciai la musica.
Ormai MTV era nelle case di tutti, quindi anche nella mia, e un bel giorno del 1984 mi sintonizzai sulle sue frequenze per rimanere letteralmente di stucco: davanti a me c’era un tizio palestrato che cantava una canzone così easy listening che più easy listening di così proprio non si poteva nemmeno col candeggio: Dancing in the Dark. E non solo la cantava, ma sculettava in playback ballando maldestramente con una giovanissima Courteney Cox (va bene, ancora nessuno al mondo sapeva che quella lì sarebbe diventata Courteney Cox, ma la questione non è che cambia di molto, no?)
C’è qualcosa che mi sono perso? mi chiesi, chi è questo tizio danzante e perchè porta il nome di uno dei miei cantanti preferiti? Da li a poco rimasi letteralmente scioccato dal video di Born in the USA, e dal medesimo tizio palestrato con una improbabile fascia nei capelli, un foulard al collo uguale a quello che portavano gli aspiranti playboy della Ciociaria, dei jeans esageratamente stretti e un giubbino smanicato corto-corto, identico a quello tipico degli aspiranti playboy del Tavoliere delle Puglie.
Capii allora che se quel tipo era davvero Bruce Springsteen dovevo fermarmi un momento a riflettere. I video, pensai, sono dei semplici prodotti promozionali e le immagini che mostrano contano poco, quel che conta è che Born in the USA sia una canzone bellissima e profonda. Certo, Dancing in the Dark proprio non riuscivo a digerirla, ma in fondo era abbastanza chiaro che il cantautore americano aveva deciso che non gli bastava essere semplicemente famoso in tutto il mondo ma che ambiva a dominarlo dall’alto dell’Olimpo con tutte le scelte e i compromessi del caso. Tutto legittimo e comprensibile ma…
…ma nel pieno della campagna elettorale per le presidenziali americane, i media italiani riportarono che Bruce Springsteen appoggiava la candidatura del presidente uscente, Ronald Reagan, che per me era il diavolo in persona e che forse era addirittura un suo intimo amico costantemente ospite alla Casa Bianca. Fu allora che tra me e quello che ormai tutti chiamavano confidenzialmente il Boss, cessò ogni simpatia o comprensione. Arrivò il video di I’m on Fire, che scimmiottava quello di Uptown Girl di Billy Joel e quindi quello di Glory Days, del quale salvai solo la performance di Little Steven chiedendomi che cosa ci facesse ancora con quel canzonettaro repubblicano e non meravigliandomi neppure un po’ quando effettivamente, da lì a poco, lasciò la E Street Band.
Pian piano venne fuori che l’appoggio a Reagan era una voce messa abilmente in giro dallo staff del rieletto presidente e da qualche giornalista di parte, che il musicista non ci pensava proprio essendo su posizioni politiche diametralmente opposte e che il tutto era stato riportato (ma guarda un po’ che novità) in modo un po’ troppo approssimativo dagli organi di informazione italiani, così rifeci il ragionamento sul video come semplice mezzo di promozione, riconobbi che I’m on Fire era una delle canzoni più belle che avessi mai ascoltato, nonostante la poca originalità del videoclip, rivalutai Born in the USA e Glory Days e, con un po’ più di lentezza, mi resi conto che anche Dancing in the Dark in fondo era una grande canzone a condizione di dimenticare le orride coreografie del cantante da solo o insieme alla giovanissima ma soprattutto innocente Courteney Cox che probabilmente se avesse rifiutato il balletto avrebbe avuto una carriera cinematografica migliore.
Qualcosa comunque si era rotto e non fu più possibile riaggiustarlo completamente: da allora io e Bruce ci siamo guardati sempre con rispetto, cortesia e simpatia ma senza avvicinarci più di tanto, almeno finchè lui non si è addentrato nei miei territori, con le Seeger Sessions, ma questa è una storia di cui abbiamo già parlato.
Tutto questo, e molto altro ancora, l’ho ricordato leggendo Bruce, la biografia di Springsteen scritta da Peter Ames Carlin. Peter è chiaramente un fan del cantante americano, e lo si capisce dopo poche pagine, questo non gli impedisce però di essere obbiettivo e di esprimere severe critiche quando è necessario, rimanendo sempre a una certa distanza dal protagonista del suo libro e senza mai esprimere pareri gratuiti su brani, momenti, persone, ma analizzando e motivando ogni giudizio con coerenza e competenza. Nel lavoro di Carlin c’è tutto quello che vorreste sapere su Bruce: la sua famiglia, le sue fidanzate, i suoi amici, le sue band, i suoi musicisti, le sue canzoni, i suoi dischi, i suoi concerti, le sue manie, i suoi difetti, i suoi pregi. C’è l’equivoco dell’appoggio a Reagan, il suo modo di vedere la società, le incomprensioni e le riunioni con la E Street Band, i figli, il New Jersey e un pezzo di storia degli Stati Uniti d’America. Non c’è nulla di scabroso o scottante, come invece è di moda in questi tempi gossippari, perchè a pensarci bene è roba che non serve e toglie spazio a quella importante, così Bruce di Peter Ames Carlin, è una delle opere migliori nel suo genere e sicuramente una delle meglio scritte che io abbia mai letto, accattivante e coinvolgente al punto giusto e capace anche di farmi riannodare alcuni quei vecchi nodi sciolti tanto tempo fa di cui abbiamo parlato: dopo le Seeger Session e Live in Dublin credo proprio sia giunto il momento di comprarmi qualche altro disco del Boss. Voi cosa mi consigliate e perchè?
Bisogna anche dire che I’m on fire è un omaggio talmente fedele a Johnny Cash che Johnny Cash stesso quando l’ha cantata ha dovuto farla in uno stile che non era proprio il suo https://www.youtube.com/watch?v=VN9RKaL1wD4