Beato te che ti puoi permettere la tristezza: U2, The Unforgettable Fire (1984)
Lagnose senza motivo. Così mi sembravano le canzoni degli U2, almeno fino all’album americano. E mi stupivano quelli che gli U2 li amavano – non perché non si potessero amare gli U2, ma perché i loro ammiratori erano quasi sempre gente allegra, non adolescenti ripiegati su se stessi e preoccupati per le guerre e le ingiustizie. Il mio amico Ciccio, per esempio, unico ragazzino forlivese – oltre a me – a mescolarsi alle zanzare di Lido degli Estensi, mi fece sentire Sunday Bloody Sunday, dicendo “senti che potenza”: eppure era un allegro reietto delle scuole medie che rideva di tutto e non sapeva niente, e che a quattordici anni aveva già abbracciato una carriera da benzinaio (negli anni Ottanta era ancora concepibile che la gente non finisse le medie: e il mio amico Gabriele, che poi ha fatto il liceo classico ed è morto investito da un’auto prima di finirlo, domandò nel suo bislacco italiano da straniero che ha ingoiato una grammatica: “Ciccio è venuto bocciato ancora?”).
Qualche anno dopo – forse era già uscito The Joshua Tree – il mio compagno di banco Francesco mi fece sentire una canzone degli U2 che a lui piaceva moltissimo: New Year’s Day. Ora, non è che a me non piacesse, sebbene – di nuovo – si sforzasse un po’ troppo strenuamente di essere drammatica. Ma anche qui, mi lasciava perplesso l’associazione fra la canzone e la persona che professava di amarla. Francesco era una persona forse irascibile, a tratti, o perlomeno irritabile, ma certo non tormentata e confusa: New Year’s Day invece denotava un certo disorientamento anche nel testo, forse perché era allo stesso tempo una canzone sulla moglie del cantante e su Solidarność. Il massimo del tormento esistenziale, Francesco, lo tradiva alla quinta ora di lezione nel nostro Liceo Scientifico di periferia, quando mi guardava da sotto in su, con un occhio mezzo chiuso, sibilandomi “Moro, sono ivre – come le bateau!”, per poi improvvisare testi nonsense su canzoni già esistenti.
Negli anni Ottanta, questa apparente dissociazione musica-ascoltatore mi si è manifestata in altri modi. C’erano i secchioni che ascoltavano la musica heavy metal, o le sue propaggini più tamarre e commerciali. C’era Marco, per esempio, che suonava il basso nel mio primo gruppo. Marco era un ragazzo molto intelligente che sarebbe poi diventato un ottimo medico, ma come bassista – sia detto per inciso – era del tutto incapace di comprendere le linee ritmiche più elementari. Soprattutto, però, Marco era un bravo bambino, dotato di una loquela da notaio di provincia già intorno ai quindici anni: e quindi come mai passò un pomeriggio a farmi sentire e vedere con orgoglio la sua collezione di vinili degli Iron Maiden? A me facevano già impressione le copertine – ma forse lui, in cuor suo, era già un chirurgo – e la musica mi sembrava un’insensata sequela di rumori prodotti da grattugie male amplificate.
L’elenco è quasi infinito: il primo della mia classe che scrisse sulla lavagna, prima che entrasse il professore, un immortale distico degli Skid Row; le brave bambine studiose e timorate della mamma che ascoltavano e vestivano dark; i borghesi in miniatura che facevano greco a scuola e a casa mettevano su i dischi punk. Ma la domanda che mi frullava nella testa allora, e che ho formulato più tardi, era questa: perché io, che non sono mai stato allegro se non per distrazione, mettevo su volentieri i Beatles e i Police, e loro, che invece mi sembravano l’incarnazione di tutto ciò che è sereno e solare, si esaltavano per gli U2, gli Iron Maiden, i Joy Division e i Sex Pistols?
Per rispondere divago. Nel 1990, quando gli anni Ottanta erano finiti nominalmente ma non a tutti gli effetti, ricordo di aver giocato una partitella amichevole undici contro undici con i miei compagni di squadra amatoriale – l’Atletico San Paolo – e altri undici pellegrini. Era sera, era autunno, e insomma tutto tendeva verso il basso. Non doveva essere una partita molto tirata, perché ricordo di aver passeggiato per il campo e riflettuto sulla vita, a tratti. E ricordo, a un certo punto, di aver pensato che tutti quei ragazzini che erano lì con me erano morti che camminavano. Anzi, non era un pensiero, era proprio una sensazione fisica: stavo giocando con dei morti che camminavano, o al più corricchiavano. Non saprei giustificare questo pensiero, o questa sensazione: non era razionale e non c’era niente di filosofico. Di lì a cent’anni, di noi non sarebbe rimasto più niente.
E insomma, la cosa della musica triste per persone allegre l’ho capita dopo, quando mi sono messo a suonare, ma ha a che fare con questo. Non è che ci sia niente di originale ad avere una sensazione come quella del campo da calcio, ma io sono (anche) quella roba lì: per cui la musica che scrivo e che ascolto deve parlare di quella roba, ma deve anche evitare di rompere i coglioni, e soprattutto non deve sforzarsi di essere triste o rabbiosa, perché non c’è niente di peggio, per me, della finta tristezza, e soprattutto se già non sei allegro di tuo non è che vuoi passare le giornate a leggere la corrispondenza dei condannati a morte. E se si può fare o ascoltare musica che parla di quella roba ma intanto è allegra, non c’è niente di meglio: non voglio dire che il mio modello di canzone sia Girlfriend in a Coma degli Smiths, ma non siamo lontani.
Mentre voi, cari amici allegri, non è che non abbiate pensieri o preoccupazioni, ma in fondo in fondo siete cuori contenti: ve la potete permettere, la tristezza – quella finta e quella vera. Ve li potete permettere, gli U2 1980-1984.