Baciami Alfredo
Come già vi ho spiegato altrove, cari i miei 7 lettori, il progressive non mi è mai piaciuto, a parte alcune lodevoli deroghe, soprattutto perchè il rock’n’roll mi ha visto nascere, il beat mi ha svezzato e, come se tutto ciò non fosse sufficiente, è stato il punk che mi ha insegnato a farmi la barba: di conseguenza tutto quello che dura più di tre minuti mi dà sinceramente fastidio a meno che il tempo extra non sia zeppo di assoli d’organo, di chitarra o congas. La roba di Santana, per capirci. Ci sono le solite eccezioni che confermano la regola, è quasi inutile sottolinearlo, ma son davvero pochine. Prima di continuare questo volo pindarico (ma nel senso più deteriore del termine) di parole dal fine più che incerto mi preme precisare che qui non esprimo alcun giudizio negativo nei confronti del progressive o dei musicisti che l’hanno adottato come proprio stile, se preferisco di gran lunga la sola I Wanna Be Your Boyfriend dei Ramones all’opera omnia degli Yes, non vuol dire che l’opera omnia degli Yes non valga niente, significa solo che a me garba poco. Lo ribadisco per l’ennesima volta: non gradisco il progressive, né quello originale né tantomeno quello moderno, figlio più di un certo metal dilatato degli anni ’80 che dei Genesis, ma non è un dogma, si tratta di gusti squisitamente personali.
Eppure, e sapete anche questo, tutta la mia giovinezza è stata accompagnata dal tipo di musica in questione e se in quei tempi lontani la sola alternativa possibile erano i cantautori italiani, lo capite da soli perchè per sentire un po’ di musica vera era d’obbligo recarsi ai concerti di rock sinfonico, cosmico o come diavolo si faceva chiamare, che il termine progressive è stato malauguratamente, e da qualcuno mal consigliato, applicato a posteriori al rock che si suonava normalmente negli anni ’70. In genere i concerti mi piacevano, per esempio Genesis e Gentle Giant da vedere erano uno vero spettacolo mentre le band che estremizzavano la complessità di quel che suonavano assumendo atteggiamenti intellettualoidi non riuscivo a digerirle, senza far nomi o gesti. I gruppi di rock duro, che gonfiavano le canzoni o le rallentavano qua e là, nel tentativo di inseguire la moda del momento mi stavano poi veramente sulle scatole, anche se adesso sono osannati e celebrati come capiscuola, dei del rock, e altre stronzate simili.
Adesso però son passati tanti anni, anni che han messo in evidenza due elementi che, in qualche modo e senza esagerare, mi fanno parzialmente rivalutare il Progressive, il primo è che si tratta del genere che ha accompagnato la mia adolescenza e che, non mi stancherò mai di ripeterlo, per noi tutti era semplicemente rock, così ogni volta che che vedo una foto dei Gong, dei Family, dei Van Der Graf Generator, o ne ascolto qualche nota, ritorno nostalgicamente all’epoca nella quale ero giovane, bello, alto, intelligente e cittadino di un mondo di fantasia proprio come adesso. Il secondo elemento è un po’ più complesso e vado a tentare di spiegarlo: negli anni ’60 esplosero nel Bel Paese i gruppi dei cosiddetti “giovani” e tutti quelli che effettivamente lo erano sognavano spasmodicamente di entrare in una band anzi, come si diceva allora, in un complesso, perfino i bambini come me. I gruppi, nei sixties, erano sempre sorridenti, i componenti si facevano fotografare inderogabilmente insieme e vicini e il loro obiettivo principale era quello di incidere successi fulminanti, finire in hit-parade, fare urlare le ragazzine, far ballare tutti, finire in televisione e diventare schifosamente ricchi. Il che, mi preme sottolinearlo, era una gran figata, nello spirito del più sano rock’n’roll, anche se praticamente il solo Adriano Celentano usava ancora questo termine. Si sapeva che il movimento hippy aveva mosso qualcosa, dalle parti della California e avevamo sentito tutti A Whiter Shade of Pale e Homburg dei Procol Harum, anche se solo nelle versioni italiane di Dik Dik e Camaleonti, ma questo non cambiava di molto le carte in tavola, si trattava comunque di canzonette arricchite di qualche simpatico orpello, l’edificio musicale che amavamo e che stava in piedi almeno dagli anni ’50, se non da prima ancora, era comunque bello solido e, apparentemente, indistruttibile. Non so chi possa essere considerato l’iniziatore del nuovo tipo di musica che ebbe il proprio apice negli anni ’70, forse i Pink Floyd o i Cream o i Traffic, probabilmente Jimi Hendrix, quasi sicuramente i Beatles del periodo Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, con A Day in The Life e Hey Jude in ogni caso a un certo punto, nel nuovo decennio ci ritrovammo con una colonna sonora radicalmente diversa da quella del decennio appena trascorso e la diversità non stava nei flauti, nei violini, nei moog ma nella nuova consapevolezza che quel che usciva dagli strumenti potesse essere arte e non solo intrattenimento. Lo capite che per un ragazzino che sognava di formare un gruppetto beat la prospettiva di mettere la maiuscola sulla musica che avrebbe potuto creare era una scoperta sensazionale? E quel ragazzino anche se amava Chuck Berry e l’Equipe 84 era chiaro come il sole che dovesse aspirare alle composizioni di Wendy Carlos, di Stomu Yamashta, dei Soft Machine. Per me riascoltare un pezzo di quei tempi è riassaporare quella sensazione di avventura, di scomparsa dei limiti, di un mondo nuovo di là a venire che purtroppo non è arrivato mai. Meglio sarebbe stato ignorare l’incipiente progresso ed evitare di togliere spazio a Elvis Presley e Jerry Lee Lewis ma, come dice Guccini, quando si è giovani si è stupidi davvero e quando il progressive prima maniera finì, come il punk che lo abbattè, ho continuato a perdere tempo con un sacco di altra roba che non mi apparteneva.
Gli italiani andavano forte in quegli anni, erano addirittura tra i migliori del mondo e sicuramente tra i più grandi che io vidi in concerto. PFM e Orme, per esempio erano articolati e allo stesso tempo trascinanti, a un livello che forse solo ELP, di tanto in tanto, riusciva a raggiungere, e poi c’erano gli altri, tra i quali il Banco del Mutuo Soccorso che, a mio parere, rappresentava la parte più pura del progressive, quella più sincera e che, quindi, a me piaceva di meno. Li vidi dal vivo una volta sola, intorno alla metà degli anni ’70 in qualche parte d’Italia e lì mi resi conto che se Francesco Di Giacomo fosse stato più teatrale, se avesse usato del make-up, qualche strano abito di scena e azzardato qualche passo di danza, avrebbero davvero potuto sfondare a livello mondiale. Erano invece musicisti piuttosto seri, molto preparati e accompagnati da idee precise sulla società come il loro album del 1973, Io sono nato libero, può testimoniare. Si trattava inoltre di persone veramente disponibili, dopo il concerto si fermarono a parlare con i fan finchè i proprietari del locale non ci buttarono tutti fuori e fu una chiacchierata parecchio divertente che me li fece apprezzare molto come persone, al di là della loro musica che, come penso sia chiaro, almeno ideologicamente era distante anni luce dalla mia anche se non potevo fare a meno di gradire molti dei loro brani, come Moby Dick, Non mi Rompete e altri ancora che non cito per non fare la figura di quello che sciorina titoli tanto per fare vedere che sa di che cosa sta parlando (ok, lo ammetto, tutti sono al corrente del fatto che, titoli o no, non ho la più pallida idea di quel che vado dicendo). Inoltre ho sempre pensato che Francesco Di Giacomo avesse, oltre a una gran voce, la capacità di scrivere testi ammantati di poesia e allo stesso tempo densi di vita, una specie di Esenin romano, tanto per fare un nome fico.
Negli anni ’80 il riflusso cancellò l’impegno sociale e politico dalle teste dei giovani italiani, sostituendoli con le discoteche, le vacanze in Spagna e la brama di somigliare ai VIP. Ci fu un sacco di buona musica, è vero, sovrastata però da un mare di musica di merda e questo spinse molti artisti validi a fare un mucchio di stronzate. Il Banco, probabilmente più per esigenze televisive che altro, produsse alcune canzoni orientate verso il pop che, al contrario di quelle di altri loro colleghi, erano belle e di gran classe. Una di queste era Baciami Alfredo, così divertente che mi toccò impararla subito alla chitarra, dopo che la banda la suonò alla trasmissione Discoring.