Annuire e lasciar intendere: Bruce Springsteen, I’m on fire (1984)
Il mio primo contatto con Bruce Springsteen risale, credo, a una gita delle medie – ancora una gita: succedeva poco, nella mia vita di ragazzino, e quel poco era organizzato da potestà superiori. Un compagno che si dava arie da intellettuale, e che poi è finito in Comunione e Liberazione, metteva su di continuo Born in the U.S.A. – la canzone. Era trascinante, anche se non partiva mai: ma mi pare di avere intuito, anche allora, che non era esattamente una canzone raffinata. C’erano quegli urli arrochiti, quel ritmo, quel suono di tastiera. E poi, anche se credo di averla vista dopo, c’era quella copertina con lui che ti dava la schiena. E il video girato dal vivo. A occhio e croce, questo tizio suonava con un plettro di riserva in una tasca e le chiavi del camion nell’altra. In un periodo in cui i modelli estetico-musicali di riferimento erano Madonna e Simon Le Bon, Bruce Springsteen si presentava in modo sconcertante.
Mi piacerebbe dire, a questo punto, che l’impatto straniante della musica e dell’aspetto del Boss mi aprì tutto un nuovo orizzonte musicale: ma in realtà non mi capitò nulla del genere, e non sono mai riuscito a pronunciare le parole “il Boss”, o a usare il passato remoto in un racconto autobiografico, senza sentirmi un completo idiota. Ho questo ricordo di aver sentito Born in the U.S.A. – la canzone – in gita, di averla voluta riascoltare le prime quattro-cinque volte e di essermi poi stufato. Tornato a casa, mi sono rimesso a registrare su cassetta le canzoni di Spagna e di Gazebo, maledicendo il tizio della radio quando parlava a inizio o a fine brano. Il compagno di classe che è poi finito dentro a Comunione e Liberazione, a un certo punto, mi ha detto dal banco davanti che c’era un album del Boss molto più bello, che si chiamava Nebraska. Io devo avere annuito, lasciando intendere che lo conoscevo, Nebraska, e poi non me l’ero mai nemmeno andato a cercare.
L’ho usata spesso, questa tecnica dell’annuire e del lasciare intendere. Per anni ho lasciato intendere che sapevo come si faceva a limonare, e poi che avevo una certa esperienza in tutte quelle altre cose che si fanno con le ragazze. Ho lasciato intendere che conoscevo libri, film e dischi che non avevo mai sentito nominare, o che avevo sentito nominare solo un’altra volta da qualcuno che li aveva letti, visti o ascoltati, e io anche lì avevo lasciato intendere eccetera. Ma la verità è che il senso di dover imparare delle cose, di dovermi informare sul canone musicale alternativo e tutto il resto, mi è venuto solo dal 1994 in poi. Per tutti gli anni Ottanta ho fatto solo quello che mi andava di fare, per poi sostenere che quello che mi andava di fare era l’unica cosa da fare. I libri, le canzoni e i film che mi sono rimasti in testa l’hanno fatto senza nessun aiuto dal mio ego consapevole e accumulatore di esperienze culturalmente appropriate.
Di tutto il decennio, l’unica canzone di Bruce Springsteen che mi è rimasta davvero in testa è I’m on Fire. Ricordo di essermi imbattuto nel video varie volte, facendo zapping dal divano, e che ogni volta che vedevo quel video lo zapping si fermava. Anche qui, ragazze irraggiungibili e macchine di lusso – come da presa in giro dei Prefab Sprout in Cars and Girls – e bicipiti e brutti suoni di tastiera. Ma così come Born in the U.S.A., senza un motivo particolare, non mi piaceva, questa invece mi piaceva. Non avevo idea che ci fossero dentro versi come questi, tanto allitteranti da essere quasi impronunciabili:
Oh at night I wake up with the sheets soaking wet
and a freight train running through the middle of my head
Mi piaceva e l’ho rifatta, insieme a Lorenzo Gasperoni. Riascoltando Nebraska – perché mi sovviene che in effetti una volta l’avevo ascoltato, mi aveva dato una cassetta il futuro CL, e mi ero detto “ammazza che palle” – mi rendo conto che forse l’abbiamo un po’ nebraskata.