A Saucerful of Secrets
Una delle caratteristiche tipiche della storiografia è il saper dare il meglio di sé soltanto trattando i fatti e di non avere la capacità di districarsi in modo soddisfacente con l’etica del periodo che di volta in volta prende in considerazione. Se con il costume (inteso come usanze e modi di vivere) spesso ci azzecca è con la morale che perde i colpi più clamorosi, sa di conseguenza discernere in modo abbastanza completo tra le passate mode ma ha serie difficoltà a ricostruire il cuore delle idee, le correnti di pensiero e ancor di più gli stati d’animo che le sorreggevano e non sto mica parlando degli antichi romani, mi riferisco molto più banalmente ai nostri anni ’70 che gli storiografi si limitano a definire di piombo senza avere la capacità di recuperarne gli slanci, gli ideali, la musica, i vestiti, il linguaggio, le idee se non in maniera superficiale o addirittura imbarazzante.
Prendiamo il fenomeno dei rocchettari/fricchettoni italiani, per esempio, e scopriamo che se li sono completamente scordati o che li ricordano solo come gli involontari e imberbi protagonisti dei disordini che avvenivano durante i concerti nei palasport provocati da non bene identificati personaggi legati all’estrema sinistra. Per codesti grandi studiosi, io e milioni di altri ragazzi come me se mai siamo esistiti lo abbiamo fatto soltanto in qualche statistica laterale e non nella vita reale. Non è così e posso garantirvelo: noi c’eravamo ed eravamo molti di più di quelli che, secondo i papaveri del giornalismo e delle università, hanno caratterizzato il decennio. La maggiornaza eravamo proprio noi, i giovani che correvano verso il futuro in modi differenti, usando l’arte, la musica, la scuola, la bicicletta, i graffi sulla pelle dopo una caduta dal motorino, la chitarra elettrica nuova ma usata, il giro di do da imparare a memoria. Noi eravamo quelli che giravano da soli in autostop o tutti insieme in furgone, che leggevano ogni libro mai pubblicato con qualche preferenza per Hesse e Tolkien, eravamo quelli che strappavano la marca dai jeans e che preferivano l’eskimo al loden, eravamo quelli che raccoglievano firme per abbattere le barriere che ancora oggi ci dividono, eravamo quelli che alla domenica mattina giocavano a pallone, al pomeriggio andavano al cinema e alla sera suonavano con un gruppo, eravamo quelli che si scrivevano le canzoni e diffondevano fanzine che stampavano di notte con il ciclostile. Eravamo quelli abbastanza intelligenti da capire che non potevamo cambiare il mondo ma che forse potevamo renderlo più vivibile e se non ci siamo riusciti è soltanto perchè la generazione precedente alla nostra, quella che ha riempito di fiori gli anni ’60, si è trasformata in una manica di yuppie fuori di testa e quella successiva in una manica di coglioni così, presi nel mezzo, siamo diventati quel che siamo diventati: persone incapaci di adattarsi, abbiamo cambiato e ci siamo inventati lavori improbabili, ce ne siamo andati in montagna, in Africa, in Messico, siamo diventati insegnanti meravigliosi, siamo finiti in overdose, ci siamo suicidati uno dopo l’altro. Noi abbiamo saturato di colori gli anni ’70, li abbiamo dipinti di inaudita bellezza e di infinito amore soltanto per renderci conto, un bel giorno, che la storia, ops, ci aveva incidentalmente cancellati. Forse era distratta, chissà, era al bar a prendersi un cappuccino insieme allo storico di turno. Sto parlando di storia ora e non di storiografia perchè gli storici, per ricostruire l’epoca di cui stiamo parlando, non vengono mica da me per informarsi su quello che a quei tempi ascoltavo alla radio o su che cosa facevo al pomeriggio o alla sera, molto più semplicemente credo che usino gli archivi dei giornali e della televisione, pieni di politici viventi in realtà alternative, economisti operanti in economie di fantasia, morti, fantasmi, fumo, nani e moltissime ballerine. In pratica temo che ormai gli storici prendano le loro informazioni dagli storiografi e non viceversa. Un bel problema….
E quindi siamo negli anni ’70 ed è successa una cosa molto strana: in Italia alcuni di noi si sono accorti che, oltremanica, da tempo un gruppo di artisti ha abbandonato la consueta musica di facile ascolto per dedicarsi alla composizione di opere più complesse che mirano molto in alto. Quelli tra noi che hanno avuto la rivelazione han provato a parlarne con amici e compagni di classe ma nel 99% dei casi si sono scontrati contro un muro di gomma: la canzone italiana la fa da padrona a ogni livello e in ogni sua forma, da quella bella e influenzata dal soul e dal rock americano, a quella diretta discendente della tradizione napoletana. Perfino i gruppi beat e rock del decennio precedente si sono adagiati sul romanticismo da classifica, scordando i ritmi e la ricerca di novità che in passato usavano come bandiere.
Incontrare qualcuno che ascolta la tua stessa musica è un evento, la scoperta di un’amico, una serie infinita di chiacchiere su quel batterista e quel bassista, su quale è il miglior chitarrista, il cantante con la maggiore estensione. Nella nostra società italiana i giovani sono ormai divisi in due tronconi ben distinti: i conformisti, legati alla melodia italiana o all’easy listening anglofono, e gli anticonformisti, amanti del rock internazionale e dei gruppi nostrani che sono riusciti ad evolversi in quella direzione.
Altro che anni di piombo, negli anni ’70 la vera sfida era tra Van Der Graf Generator e Franco Simone, tra Jackson Browne e il Giardino dei Semplici. Ma c’era dell’altro e questo è ben più difficile da spiegare, c’era il sentirsi parte di qualcosa di speciale, e qui mi riferisco solo a noi ragazzi che avevamo scoperto il nuovo rock, c’era la sensazione di far parte non di una comunità, ma di una nuova nazione, sensazione che i conformisti, in quanto tali, non potevano certo provare: loro accettavano quel che il mercato/potere/industria, imponeva: vestiti, cantanti e convenzioni venivano accettati ciecamente senza alcun senso critico e senza il minimo interesse per la qualità che, a volte, c’era e magari era era anche alta.
Noi eravamo il popolo rock e seguivamo un’altra via. Se debbo essere proprio sincero eravamo coglioni anche noi sotto un sacco di aspetti, tuttavia ci siamo goduti in beata solitudine o in selezionata compagnia un universo di musica speciale prima che il conformismo livellasse ogni cosa, tramite la TV, e rendesse tutto uguale e fruibile da chiunque. I concerti erano i raduni della nostra nazione e lo spettacolo, nel 90% dei casi non era certo sul palco, lo spettacolo eravamo noi, con i nostri capelli, i nostri vestiti, le nostre toppe sui pantaloni, le cose belle che i nostri fratelli maggiori degli anni ’60 avevano gettato via e che noi avevamo raccolto. Spesso quelli che suonavano neppure li apprezzavamo molto ma eravamo lì per dovere, per ribadire la nostra esistenza.
Per esempio a me i Pink Floyd non sono mai piaciuti e non sto qui a spiegarne la ragione, vi basti sapere che sul secondo canale (o almeno ricordo così) della televisione una notte del ’74 o magari addirittura del ’73, visto che parliamo soltanto del filmato relativo al concerto e non alla versione cinematografica (o almeno ricordo così), fu messo in programmazione Pink Floyd at Pompeii. Al mattino seguente dovevo alzarmi presto e, come sapete, non amavo la band, ma avevano i capelli lunghi e suonavano un gong, quindi facevano parte della mia nazione e dovevo guardarlo per forza, inoltre qualcuno su qualche rivista, aveva scritto che durante l’esecuzione di A Saucerful of Secrets David Gilmour mandava in delirio la chitarra e dovevo assolutamente capire come si potesse mandare in delirio un oggetto. Le metafore degli altri non mi son mai piaciute, preferisco le mie.