Il paradiso
Dopo tanti anni scrivo ancora canzoni perchè mi viene facile. Se debbo essere completamente sincero non credo siano canzoni di alta qualità ma ogni tanto ce n’è una che mi colpisce in modo particolare, una che mi fa riflettere e pensare che in altre mani potrebbe divenire un successo. Sicuramente si tratta di una mia sensazione basata sul nulla, tuttavia so che non dovrei lasciarla andare, so che sarebbe meglio se me la appuntassi su un quaderno o in un file audio e invece io la lascio volare via senza rimpiangerla più di tanto, sperando qualcun altro possa acciuffarla al volo e comporsela di nuovo.
Scrivo canzoni la sera, quando son tutti a letto e anche io ho un po’ sonno. Prendo la chitarra e provo qualche progressione armonica non particolarmente strana che, non appena si è consolidata nella mia mente, mi chiama un accordo differente, per un inciso, un ritornello. A volte mi tuffo in un giro blues che rompe subito gli schemi, infatti non seguo mai il numero di battute classico che ci aspetterebbe, preferendo seguire l’istinto o quello che è, intanto si è creata una melodia che, a meno di qualche cataclismatico evento particolare, non cambierà più o cambierà solo impercettibilmente. Mancano solo le parole ma le parole non sono mai state un problema, così canto il risultato finale non più di un quarto d’ora dopo avere dato il via alla facenda ed è proprio in quel preciso momento che inizio a dimenticarmene e decido di andare a dormire.
Certo, la canzone non è un granchè, ma il punto non è la qualità, il punto è che io detesto scrivere canzoni.
Le canzoni andrebbero scritte quando si ha dentro qualcosa di importante da comunicare o di presunto tale. Se le si scrive per mestiere bisognerebbe spiegarlo all’eventuale pubblico prima di suonarle o se le si scrive perchè è possibile farlo allora tanto vale cavarsi i denti perchè anche questo è possibile farlo.
Io scrivo canzoni perchè mi viene facile, potrei buttarne giù dieci al giorno e per la legge dei grandi numeri nel giro di un anno una dozzina almeno di decenti per un album salterebbero fuori, ma non ho proprio niente di speciale da dire quindi detesto farlo e quelle che mi vengon fuori la sera non le conservo, non le appunto, al mattino si sono trasferite da qualche altra parte. Le butto via perchè il loro posto è nella pattumiera dello spirito. Sputi dell’anima. Nessuno mi chieda mai di scrivergliene una, fosse anche per una grande causa o per vincere un milione di dollari, le mie canzoni sono aborti della mia creatività, errori di cui mi pento ogni volta, tempo perso, piacevoli come il finire sotto un tram. Roba inutile e probabilmente brutta.
Una volta però amavo farlo e mi piaceva anche farle ascoltare, arrangiarle, inciderle. La musica mi veniva fuori istintivamente (buona o cattiva che fosse), probabilmente filtrata attraverso quel che ascoltavo più volentieri alla radio o nei 33 giri mentre le parole, quelle sì, avevo studiato parecchio per imparare a scriverle. Senza preferenza di genere o filtri d’altro tipo analizzavo i testi di tutto ciò che veniva pubblicato in italiano o in qualche comprensibile dialetto, la forma delle strofe, la metrica, le metafore. Provavo a cambiarne le parole, a invertirle, a giocarci finchè un bel giorno, improvvisamente, quelle parole han preso a strabordare, a invadere la mia musica e a spingersi anche oltre. Un mare in tempesta del quale perfino qui c’è qualche lievissima traccia.
E’ così che funziona, no?
Ho sempre adorato Patty Pravo ed è sempre stato un piacere scomporre ed esaminare i brani che cantava con quella sua voce così particolare e ammaliante ma, quando uscì il Paradiso brano di Battisti e Mogol, la frase iniziale mi lasciò alquanto perplesso: “Il paradiso tu vivrai…“. Qualcosa dentro di me si ribellò a questa metafora da altri molto apprezzata: non è raro infatti il caso di giornalisti e telecronisti sportivi che affermano di “vivere la partita”, o testimoni oculari che dichiarano di aver vissuto un evento ma, come si dice in giro, quando il troppo è troppo allora è troppo. Pensai, a torto o a ragione, che ci son metafore giuste e metafore sbagliate, relegando quella del paradiso tra quelle completamente sbagliate convinto allora, come oggi, che la vita fosse l’unica cosa vivibile mentre il paradiso, essendo un posto, al massimo poteva essere abitato.
Qualche anno dopo lessi su Eureka un racconto a fumetti che mi colpì molto e che affrontava il tema della vita dopo la morte, del paradiso e di come a costruirlo ci debba pensare l’uomo stesso attraverso le azioni compiute in vita, attraverso quel che ama e quello in cui crede e quindi considerai la possibilità di poter ridefinire il paradiso non come luogo ma come “seconda parte della vita”, rivalutando in pieno la frase iniziale della canzone di Patty Pravo che, comunque, mi piaceva moltissimo proprio come moltissimo mi piace oggi.
Quel numero di Eureka, in ogni caso, mi ritorna spesso in mente perchè conteneva, oltre a quella di cui vi ho appena parlato, diverse altre storie che, centrando perfettamente l’obiettivo degli autori, risultavano veramente disturbanti e capaci di farti riflettere per il resto della vita. Che grandi autori erano quelli lì, ragazzi, fin troppo bravi: il fumetto d’autore stava diventando troppo serio e sofisticato e io, che non sono mai stato né serio né sofisticato reagii buttandomi sui paperi e i supereroi (e in qualche caso su paperi supereroi) senza però mai scordare l’oltretomba plasmabile a propria immagine e somiglianza che scoprii su quella mitica rivista.
Se fosse possibile crearsi il proprio personale paradiso il mio avrebbe due poltrone del cinema, quella a sinistra per me, quella a destra per il cappotto, di fronte ci sarebbe uno schermo enorme e ai lati infiniti scaffali nei quali sarebbero conservate le pellicole di tutti i film mai girati. Dietro diversi scatoloni contenenti i dischi che più mi piacciono, da far suonare nell’intervallo tra i due tempi, e appoggiata al bracciolo la chitarra resofonica che la maschera mi ha lasciato portar dentro, anche se non ha ben capito a che cosa mai mi potrebbe mai servire.