Classe ’58
E’ solo una canzone ma, chissà perchè, ascoltandola ti par di sentire suoni che non provengono dalle casse,
avverti profumi che non sono nell’aria e colori diversi da quelli che vedi infiammano i tuoi occhi.
I casi sono due: o quella canzone ha risvegliato dentro di te ricordi che erano assopiti, o è meglio che ti fai vedere da un dottore!
La storia del mio mancato servizio civile è una storia che ancora fa sbellicare dalle risa i miei spiritosi amici anche se, a rifletterci per bene, non c’è proprio niente da ridere. Avevo quasi diciotto anni e la terribile visita di leva era ormai imminente, io avevo parlato con il presidente dell’unica associazione allora esistente, almeno in città, che si occupava anche di obiezione di coscienza e lui mi aveva spiegato che si trattava di una faccenda drammaticamente importante: bisognava affrontare un vero processo e per questo essere molto ben preparati altrimenti si rischiava seriamente di finire in galera. Mi fissò un’appuntamento con chi si occupava di queste tematiche e io ci andai accompagnato da due allegri amici che volevano informarsi su che cosa fosse mai questa misteriosa obiezione di coscienza. Fui ricevuto da una persona di pessimo umore che, per prima cosa, mi domandò che cosa facessi nella vita, io risposi che avevo appena lasciato la scuola e che mi stavo cercando un lavoro e questa persona, dimostrando una intelligenza di livello cosmicamente superiore, praticamente mi buttò fuori dicendo che il suo tempo era prezioso e che non aveva intenzione di perderlo con uno sfaccendato come me. I miei amici furono presi dalla ridarella ed incasellarono il fatto tra gli aneddoti da rivangare e narrare, con aggiunte inventate al momento, in ogni occasione propizia. Entrambi erano ancora studenti e quando, molti anni dopo, fu il loro turno si appoggiarono a una organizzazione legata mi pare al Partito Radicale che si occupò di tutto e finì che trascorsero un piacevole periodo di vacanza che bizzarramente chiamarono Servizio Civile.
Non faccio il nome dell’associazione presso la quale volevo appoggiarmi perchè esiste ancora, è composta da persone meravigliose e non vorrei che l’aver dato in passato importanti responsabilità a un perfetto coglione come quello con cui parlai io possa incrinarne la reputazione, in fondo tutti possono sbagliare nel valutare gli altri. Io avrei dovuto tornare dal presidente, che conoscevo fin da quando ero bambino, spiegargli quel che era successo e fare in modo che le cose ritornassero nei giusti binari ma pensai che non volevo far parte di un qualcosa che comprendesse anche il noto imbecille così conclusi che potevo e dovevo affrontare il servizio militare come pacifista non-violento. Mi cagavo un po’ sotto ma quando mi chiamarono ero pronto.
Il primo giorno di naja un ragazzo alto e sorridente, con idee simili alle mie, rifiutò di indossare la divisa e dopo un po’ di tira e molla fu trasferito al carcere militare, quella sera stessa ne incontrai un altro che stava facendo il soldato da oltre due anni a causa del numero spropositato di CPR (cella di punizione di rigore) che aveva accumulato e che andava recuperato “E’ più forte di me” affermava sconsolato “proprio non riesco a ubbidire agli ordini”. Io ero coraggioso ma non come quei due, perciò decisi di essere molto più soft e di agire con la massima astuzia. Le cose mi andarono tutto sommato bene, riuscii a non toccare un arma durante tutto il servizio militare e ottenni un incarico d’ufficio distaccato dove l’uso della divisa era facoltativo. Con altri tre commilitoni fondammo il “Circolo Poetico Pablo Neruda” tramite il quale, per un anno, tempestammo di poesie sulla pace chiunque potesse pubblicarle. Scrissi decine e decine di canzoni coinvolgendo altri musicisti e spesso, davanti agli alloggi degli ufficiali, organizzavamo concertini piuttosto travolgenti. Lessi molti libri, mi avvicinai ulteriormente alle varie tradizioni orientali e lì dentro imparai perfino un mestiere, un vero mestiere nel quale divenni davvero bravo. Scioccamente pensai che l’esercito mi avrebbe fornito delle referenze per continuare ad esercitarlo anche nella vita civile e invece no, per quel che concerne il lato istituzionale fu un anno completamente buttato via. Fortunatamente questo spreco fu compensato dal circolo poetico, dalle canzoni e dai concertini senza considerare che lì mi innamorai di Roma, che adesso considero come la mia seconda città e alla quale ritorno ogni volta che posso.
Il “Circolo Poetico Pablo Neruda” era una cosa davvero seria che, se a quei tempi ci fosse stata la tecnologia che abbiamo oggi, si sarebbe potuta tranquillamente evolvere in qualcosa di importante, invece dopo il congedo fu molto durra mantenere i contatti e la cosa purtroppo finì per essere archiviata tra le belle esperienze da ricordare. Ci riunivamo di notte nel mio ufficio, che si trovava in un piccolo edificio isolato, e lì facevamo grandi chiacchierate politico/filosofiche, qualche rara bevuta (i soldi erano quelli che erano), ci leggevamo le nostre poesie e suonavamo la chitarra finchè crollavamo addormentati sulle sedie, con la testa appoggiata sulla macchina da scrivere, con la biro tra le mani, con i fogli che svolazzavano tra i nostri sogni insieme a tutte le idee che vi erano tracciate. Io portavo la chitarra sempre con me, anche quando nei fine settimana tornavo a casa per i permessi di 48 ore e sempre incontravo sul treno altri ragazzi che mi spingevano a suonarla. Allora conoscevo l’intero repertorio di Bennato, che come accordi era facile da ricordare anche per uno smemorato come me, e alcune canzoni di altri cantautori, quindi riuscivo a intrattenere i passeggeri cn una certa perizia e ogni tanto infilavo dentro qualche brano mio che riscuoteva sempre buone critiche, se così si può dire. Insomma, il Soldato con la chitarra se la cavava in modo soddisfacente e nonostante tutta la negatività che l’istituzione portava con sé riusciva a usare, in qualche modo, il servizio militare in modo positivo. Ma non era così per tutti. Alcuni ragazzi semplicemente impazzivano, in caserma, altri passavano il tempo a piangere, a pensare alla fidanzata, alla famiglia, agli amici, al bar sotto casa. C’era una tensione continua, una disperazione che serpeggiava tra le gambe pronta ad azzannarti una caviglia, a colpirti al cuore. Tutto questo capitava in una città bellissima come Roma, non oso pensare a quel che poteva avvenire nella testa di quei ragazzi meno fortunati che invece erano stati spediti in luoghi piccoli, decentrati o in mezzo al nulla.
Nello spaccio le consumazioni avevano prezzi bassissimi e quindi quando si poteva si stava lì a giocare alla morra, prendersi il caffè, mangiarsi una pizzetta o bersi il micidiale cocktail a base di brandy, latte e succo di frutta che era la specialità della casa. C’era una saletta attigua, con la televisione, dove si guardavano le trasmissioni sportive, e di fianco all’ammaccato bancone troneggiava l’ancora più ammaccato juke-box che, per poche decine di lire alla volta, regalava alcuni successi del momento e molti dei momenti passati. E quindi si ascoltava Triangolo di Renato Zero, Quando Teresa Verrà di Marco Ferradini e Laura Luca con la sua Domani Domani che immancabilmente vedeva qualche baldo soldato crollare sotto il peso della nostalgia e dei pensieri romantico/malinconici. E poi si poteva anche selezionare un sacco di roba vecchia, probabilmente lì dagli anni ’60, da quando avevano installato il juke-box, ma che non piaceva a nessuno e che nessuno faceva suonare. I Pooh non c’erano ma furono loro, caso incredibile, a dedicare una bella canzone, Classe ’58, proprio ai ragazzi della mia leva costretti a regalare un anno della propria vita allo stato per ragioni completamente sbagliate, almeno per i pacifisti non-violenti come me. Questa e le altre citate, sono le canzoni che accompagnarono il mio servizio militare, lo fecero contro la mia volontà, a essere sinceri, non mi chiesero il permesso, ma da allora e per sempre rappresentano i miei vent’anni.