Celebration
Io non lo ricordo mica qual è il primo concerto rock al quale ho partecipato. A un certo punto ho deciso che era quello dei Santana nel 1972 ma se sono abbastanza sicuro dell’anno, sull’artista ho dubbi piuttosto forti, essendo ormai passati lustri a manciate ed essendo la mia testa ormai ridotta nel modo che ben tutti conosciamo e amiamo. Il fatto è che a partire da quel 1972 di concerti ne ho visti tanti, troppi, e anche persone meno svanite di me avrebbero serie difficoltà a ricostruirne la storia quindi ci conviene prender per buono il pettegolezzo su Santana, metterci l’anima in pace e spingerci di molto oltre lasciando sul posto orde di storici preda del loro consueto e ben meritato stupito torpore.
La maggior parte dei miei “grandi” concerti risale agli anni ’70, ce ne sono stai altri anche nei decenni successivi, è vero, ma a quel punto la passione si era un po’ spenta come la qualità dei musicisti che si esibivano, almeno secondo il fallace, ma comunque personale, gusto che ostinatamente mi accompagnava allora come oggi, così pian piano lasciai perdere per dedicarmi a cose che, apparentemente, erano più divertenti. Ma quegli anni ’70, credetemi, furono sufficienti per il resto della mia vita e perfino oltre. Li vidi tutti, proprio tutti: gruppi rock, folk, menestrelli, cantautori, sperimentatori, innovatori, truffatori, peracottari, geni, virtuosi. Prendete un qualunque musicista attivo in quell’epoca e se è passato per l’Italia, magari di striscio, allora io l’ho visto e questo, rispetto agli esperti dei nostri giorni che pontificano da siti e riviste basandosi sulla storia ufficiale, revisionata e istituzionalizzata, mi dà un vantaggio che potremmo chiamare “contemporaneità agli eventi” e che mi fa sapere cose che il criticonzolo neppure osa sognare nelle notti più turbolente delle sua mente: lui, per esempio, può parlare di una band e raccontarne l’importanza, può ascoltarne la musica incisa e spiegarvela, cari i miei 7 lettori, però sappiate che quando quella band era attiva creava e registrava la propria musica lui non c’era ma io sì, e forse so che quella musica ha acquisito una dignità a posteriori, appiccicatagli addosso sicuramente a causa della scarsezza musicale che è deflagrata negli anni successivi e che forse anche la dignità dell’artista rivalutato ha avuto una accurata ricostruzione postuma alla fine, magari ingloriosa, della sua carriera. Perchè sui palchi dei teatri, dei cinema, dei parchi e dei palazzetti dello sport io ho visto dei veri fenomeni del pentagramma, ma anche dilettanti e ciarlatani buoni solo a turlupinare il pubblico proponendo stupidaggini inenarrabili, gente che veniva costantemente spernacchiata senza riguardo alcuno e gente che in seguito ha avuto una riabilitazione giustificata solo dalla pochezza intellettuale di certa critica preoccupata più della dispensa di casa che dell’educazione all’arte dei lettori. Nomi però non ve ne faccio, per quieto vivere e perchè mi piace essere misterioso, però esistono i dischi e voi potete ascoltarli, se qualcosa di ultracelebrato al vostro orecchio suona come una stronzata di dimensioni bibliche allora è probabile che sia davvero così: non date in alcun modo credito alla critica ma solo alle vostre orecchie, se io avessi dato retta ai critici della mia gioventù non mi sarei mai goduto gruppi come gli Slade, T. Rex, Sweet, Grand Funk Railroad, Nazareth e altri, che allora venivano sconsigliati così come di solito si sconsiglia di mangiar la spazzatura.
Essere stato adolescente nei ’70, non fosse altro per la musica che ne riempiva l’aria, è stato figo quasi quanto essere stato bambino nei ’60, con le varie rivoluzioni dei fiori, i Beatles, Mary Quant e la via italiana a tutto questo, fatta di forma più che di sostanza e di vestiti confezionati in casa basandosi sulle foto viste nelle riviste femminili, di acconciature improbabili, di un mondo rurale che si dimenava verso una industrializzazione poco meno che improvvisata. I Quelli, mitico complesso beat operante nel bel paese con alterne fortune, si gettò negli anni ’70 con un nuovo nome e una nuova grinta. Quello è stato il miglior gruppo che io abbia mai visto dal vivo, la Premiata Forneria Marconi.
Ora vi spiego una ovvietà che però alcuni di voi sicuramente non conoscono, lo so perchè anche se la mente va un po’ dove vuole l’udito ce l’ho ancora abbastanza buono e mi capita spesso di ascoltare in giro parecchi strafalcioni rock: quando si vuole abbreviare il nome troppo lungo di una band di solito si ricorre a un acronimo se l’appellativo è composto da tre parole o più altrimenti se ne usa solo la parte finale, per intenderci si dice Stones e non Rolling, Roses e non Guns, Floyd e non Pink. Nel ’72, prima che qualcuno inventasse questa regola usavamo la parte iniziale del nome e quindi c’erano i Rovescio (della Medaglia), il Banco (del Mutuo Soccorso), il Balletto (di Bronzo), la Locanda (delle Fate), gli Stormy (Six). Perchè vi doco tutto questo? non lo so, forse solo per raccontarvi di quell’energia che, durante ogni singolo concerto, si scaraventava giù dal palco e travolgeva gli spettatori tutte le volte che la Premiata suonava determinati brani. Era qualcosa che cominciava dal pavimento, una vibrazione, poi saliva fino alla pancia e più su fino alle orecchie che lo mischiavano con i suoni che arrivavano dagli amplificatori e spedivano tutto al cervello che metteva in moto le gambe. A quel punto si ballava tutti come pazzi e anche un po’ come scimmie, che eravamo rocchettari mica tipi da balera e sale da ballo (le discoteche ancora dovevano mostrare i muscoli). Nessun’altra banda riusciva a scatenare una tale trance, né italiana né straniera, e i brani che la causavano erano Four Holes in the Ground e Celebration. Non affannatevi a cercare testimonianze audio che comprovino le mie affermazioni: durante il trasferimento su nastro e in seguito alla stampa su qualunque supporto audio possiate adoperare, qualcosa ha lasciato fuori la magia, il vudu, l’energia tribale. Peccato. Comunque è rimasta la musica e non è male neppure lei.